Diario dall’India - Dall’ invito dalla Facoltà di architettura di Tumkur per un simposio internazionale d’arte nel loro campus nasce la possibilità di lavorare con artiste e artisti di diversi paesi e di visitare il Karnataka. Ed è subito innamor
Prota Giurleo Antonella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2009
Il mio primo avvicinarmi alle donne riceve una risposta di gentilezza, di dolcezza e di disponibilità sorprendenti. Alla mia richiesta di poter riprendere con la macchina fotografica volti, mani, azioni la risposta è sempre positiva. Il modo di dire sì con il capo in India è simile, a un primo momento, al nostro no per cui inizialmente sono un po’ disorientata perché al gesto segue il mettersi in posa, ma poi tutto diventa chiaro.
Namastè, velocemente tradotto con “Salve” ma significante in realtà non un semplice saluto ma un riconoscimento di onore, pronunciato con le mani giunte sotto il viso, chinando leggermente il capo, è la prima (e l’unica) parola che imparo. Mi pare il minimo di fronte alla gentilezza di queste donne che ritengono di dovermi dire: “Grazie” per averle fotografate.
Bellissime donne che praticano, indossando splendidi sari, anche i lavori più pesanti (ho visto muratrici e spaccapietre), spesso portando sul capo carichi onerosi e che camminano con un’innata eleganza e mostrano, anche nelle situazioni di maggiore povertà, un’estrema dignità.
Tra i pesi che le donne portano sulla testa e nelle mani, il vaso dell’acqua. La forma dei vasi, anche oggi che i recipienti sono spesso di plastica, in sostituzione dei più vecchi di terracotta, ripete quella antica: una sfera con base sufficientemente ampia da poter essere appoggiata sul capo e portata senza timore di rovesciare il liquido nel tragitto, e con un collo stretto. Una forma che riprende quella dell’utero riferendosi, in quanto contenitrice di acqua, alla nascita e alla fertilità femminile.
Quando arriviamo a Tumkur, nel campus dove si svolgerà il simposio, abbiamo modo di conoscere artiste e artisti indiani. Ed è a Geetha Kekobad, artista del Kujarat, che mi rivolgo per chiedere qualche approfondimento di conoscenza sugli usi e costumi del paese. Mi spiega che ci sono due forme di matrimonio: quello in cui donna e uomo si scelgono e comunicano la decisione di sposarsi ai genitori ai quali viene richiesto l’assenso, e quello organizzato dai genitori cui i figli si adeguano. In molte comunità il matrimonio per scelta è ancora molto difficile, ma possibile. Ho appreso in Italia con sgomento che in India, dopo aver appurato attraverso l’ecografia il sesso del feto, molte donne decidono di abortire sapendo che nascerebbe una femmina. Mi si dice che, in effetti, è vero; pur essendo l’interruzione di gravidanza illegale in tutti gli stati dell’India, diverse donne si orientano verso l’aborto clandestino perché preferiscono avere un bambino piuttosto che una bambina.
Il divorzio, pur essendo possibile, è poco praticato in quanto significa per la donna una condizione di isolamento, che può comportare anche l’allontanamento dalla famiglia di origine, davvero difficile da sopportare.
Pur avendo ormai fatto l’abitudine all’eleganza del portamento di queste donne rimango sorpresa dalla spontaneità e dalla competenza di movimento di Pura che dipinge e di Renuka e di tutte le altre che, sempre con il sari, si muovono in motocicletta.
Un’eleganza naturale che, forse, trova la sua origine nella danza. Le antiche sculture del tempio di Channekeshava a Belur rappresentanti donne che danzano, rivivono nei movimenti delle danze classiche e moderne il cui spettacolo ci viene offerto al campus, ma anche nelle movenze di giovani donne e uomini con i quali balliamo, su musiche indiane contemporanee, in una serata al Country Club. E’ innegabile che la danza sia per donne e uomini, una modalità espressiva che trova il suo fondamento in una cultura millenaria e che si esplicita in un’istintiva spontaneità, eleganza e gentilezza attraverso gesti e sorrisi. In India entrambi i sessi paiono trovare nella danza la stessa gioia e si muovono armonicamente.
Il tempo è una variabile strana. Abituata a correre e a fare in Italia, qui, almeno per i primi giorni, mi sento ripetere sempre, quando vengo presa dall’ansia: “Take your time”, “prenditi il tuo tempo”. Non ho mai visto oziare una donna ma, pur muovendosi con la calma e l’eleganza che le contraddistingue, ciascuna riesce a svolgere nel corso della giornata una quantità di attività, comprese quelle, indispensabili per il proprio equilibrio, della cura di sé: cura dedicata ai propri capelli o alla preparazione di collane di fiori per adornare l’acconciatura.
Se c’è un problema, non lo è, “It is not a problem”. Con una calma e talvolta una lentezza che possono disorientare o addirittura innervosire un occidentale, le cose effettivamente si riescono sempre a risolvere. Madavi, moglie di Sha, artista indiano, arriva al simposio per assistere all’inaugurazione della mostra. Le sue mani, eleganti e sottili, sono decorate come è uso per i matrimoni. Di fronte alla mia ammirazione mi chiede se desideri anch’io avere le mani dipinte e, l’indomani, si presenta con il materiale necessario. Non avevo immaginato la quantità di tempo necessaria per il lavoro così, mentre Madavi dipinge le mie mani, continuo a scusarmi. E lei, con un sorriso dolcissimo e una squisita gentilezza, continua a ripetermi che non è un problema perché si tratta di un lavoro che le piace fare.
Una concezione del tempo e della vita dalle quali avremmo, io sicuramente, ma credo tutti in Occidente, molto da apprendere.
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