Lunedi, 13/07/2020 - Crudeli, spietati, sociopatici, efferati, feroci, brutali: sono gli aggettivi che definiscono gli atti compiuti dagli esseri umani nelle varie guerre sparse nel pianeta. Ci colpiscono sempre, e di più, quando sono coinvolti i minori in qualità di perpetratori, per esempio quei ‘bambini soldato’ che l’Unicef stima in circa 250.000 nel mondo, in crescita di anno in anno. Addestrati al disprezzo di qualunque forma di empatia questi giovanissimi sono un’arma micidiale nelle mani di adulti che, quasi sempre, sono stati a loro volta bambini abusati nella mente e nel corpo, come i piccoli che reclutano. Una catena infinita di abiezione. Questa realtà spaventosa ci conferma che non si nasce crudeli, ma che lo si può diventare e imparare con l’esempio, l’educazione, l’apprendimento.
La violenza ha i suoi banchi scolastici, i suoi corsi, i suoi esami e le sue università.
Ma attenzione: se fin qui si può mettere distanza tra noi e queste aberrazioni nell’illusione che sì, è terribile, ma stiamo parlando di Uganda, Sri Lanka, Afghanistan, Myanmar, Sierra Leone, Liberia, Colombia e Sud Sudan, bene, ci stiamo sbagliando. Esiste un altro livello di guerra, senza armi imbracciate, vicinissima, anche se invisibile.
Italia, la scorsa settimana, civilissima Toscana. Sono 20, tra i 13 e i 17 anni, gli adolescenti che partecipano ad un gruppo social (gli inquirenti lo hanno definito ‘dell’orrore’), nel quale si scambiano foto e video pedopornografici, accanto ad altro materiale scaricato dal dark web, con esecuzioni, mutilazioni, violenze su animali. Ragazzini che guardano altri ragazzini e bambini abusati.
I giornali raccontano che l’atroce scoperta è partita dalla denuncia di una madre che, per fortuna, ha avuto accesso al cellulare del figlio quindicenne: una pratica, quella del ‘controllo’ dei dispositivi dei giovanissimi da parte degli adulti, che fa alzare molte sopracciglia. Nel corso della mia vita di madre ho sentito spesso genitori giustificare la loro assenza nella relazione educativa con frasi come ‘sono cose sue’, ‘non entro nella sua privacy’, ‘mica sono uno sbirro’ e via così.
Pensarsi come ‘amici’ dei figli e delle figlie, durante la delicata e tormentata fase dell’adolescenza, nella convinzione che questa (presunta) ‘parità’ e vicinanza siano positive è un colossale errore, ma soprattutto è pericoloso per chi sta adolescendo.
Non si tratta di fidarsi, e di rispettare gli spazi, sostiene Asha Phillips nel suo famoso I no che aiutano a crescere: la fiducia è un percorso che, nella relazione genitoriale, si costruisce tenendo conto del contesto, identificando regole e limiti, diritti e doveri. È in questo modo che si insegna, e si apprende, la socialità e il senso della cittadinanza. Sempre più spesso le persone adulte di riferimento, non solo la famiglia ma anche la scuola, l’associazionismo, il mondo sportivo sono ignare dei pericoli di un web usato senza controllo e adeguate conoscenze e formazione.
Abbandonati nella solitudine social, i più giovani rischiano di perdere il contatto empatico, emozionale con la realtà: i corpi in rete non si toccano, le immagini scorse con un dito a milioni non hanno spessore, e like dopo like, emoticon dopo emoticon aumenta esponenzialmente l’abisso di analfabetismo dei sentimenti e della percezione, soprattutto oggi che ogni essere umano si porta in tasca, nel formato medio di 5 pollici scarsi, tutta la sua (presunta) esistenza. Essere sempre on line, per la generazione tra gli 11 e i 17 anni, rischia di assottigliare la linea di demarcazione tra vita reale e virtuale, dove i limiti sono inesistenti. Siamo molto lontani da quella raffinata teoria proposta da Luciano Floridi, direttore del Digital Ethics Lab e docente di filosofia e etica dell’informazione all’Università di Oxford, creatore del neologismo onlife, “progetto umano per il ventunesimo secolo”. Nel dark web, al quale si accede in tre passaggi dopo aver scaricato una app gratuita, non c’è bisogno di template accattivanti: a meno che non la si usi per scopi umanitari e attivismo protetto per sfuggire al controllo di regimi totalitari, chi vi naviga lo fa principalmente per tre motivi: droga, armi e pedopornografia. Gli occhi dei giovanissimi sono esposti in questo ambiente alla visione di immagini e video a carattere violento (sulle donne e sui bambini e bambine in particolare) senza alcun filtro. La domanda è: cosa accadrà (cosa di fatto sta già accadendo?) nella vita sessuale, nelle relazioni concrete dei corpi e nell’immaginario erotico di chi, prima ancora che nell’esperienza graduale di ogni persona, che ha tempi e situazioni diverse per ciascuna/o di noi, è stato esposto in solitudine alla pornografia, e quindi ha potenzialmente avuto questa come palestra prioritaria per allenare corpo e fantasia alla sessualità e alla relazione sessuale? Cosa succede se la relazione virtuale soppianta quella reale nella mente di un adolescente esposto in solitudine alla visione di immagini violente, degradanti, crudeli? Il rischio è considerare la pornografia moderna e inoffensiva anche nell’adolescenza, ovvero normalizzarla. Il rischio è che i gruppi di pari, dove i ragazzi e le ragazze dovrebbero convivere in reciprocità e mutuo aiuto, si trasformino da luogo di scambio e crescita in branco, incrinando per sempre la fiducia verso l’altro, come è successo nel caso di stupro delle due ragazzine a Rimini.
Per questo ho pubblicato in Crescere uomini la bella e coraggiosa Lettera a mio figlio sulla pornografia di Harriet Pawson, giornalista e ricercatrice, lanciata dal sito every day feminism, il più importante sito indipendente di donne in Australia.
Vi invito a leggerla, perché il mondo adulto, quello di chi ha figlie e figli in particolare, ha bisogno di trovare le parole, in fretta, per ricollocare nel giusto spazio il tema della sessualità, raccontandola ai più giovani aumentandola quota di empatia, rispetto ed emozionalità e riducendo quella dell’ossessione genitale e performativa. Eccone un passaggio:“Non c’è niente di sbagliato nel sesso, e non c’è niente di sbagliato nell’essere interessati ad esso. Per me, questa non è una questione morale. Sono arrabbiata perché penso che guardare porno ha il potenziale di influenzare le tue esperienze sessuali in un modo davvero negativo. E non sono solo io a pensarlo. Questo è un fatto provato. Gli uomini che guardano un sacco di porno hanno difficoltà a godere del sesso reale con le donne reali. E io non voglio che tu sia così né per te stesso e né per le tue partner. Solo perché l’hai visto nel porno, non dare per scontato che funzionerà nella vita reale. Chiedi sempre prima, mai fare l’errore di pensare che una ragazza sia interessata a qualcosa solo perché lo hai visto in un porno o perché è piaciuto all’ultima ragazza con cui sei stato. La pornografia è fatta dagli uomini per gli uomini. Questo significa che ciò che si vede di solito è ciò che gli uomini vogliono fare, non quello che piace alle donne”.
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