Poesia / Francesca Farina - Musicalità dell’endecasillabo e rime inedite e sorprendenti
Benassi Luca Martedi, 24/11/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2009
Il sonetto è senza dubbio la forma chiusa più usata nella letteratura italiana e l’amore è l’argomento più cantato in poesia. Chi dunque si mette a scrivere e chi legge sonetti d’amore deve fare i conti con una tradizione plurisecolare, declinata sia al maschile che al femminile, che ha plasmato gran parte della letteratura italiana. È una tradizione che pesa, che non si può liquidare e che allo stesso tempo è necessario rinnovare e a volte cercare di superare; eppure Francesca Farina riesce a entrarvi dentro senza farsi intimorire, sicura e consapevole delle proprie capacità, abitando la forma sonetto con una leggerezza e una abilità fuori dal comune. I sui sonetti scivolano sulla musicalità dell’endecasillabo calcato su costruzioni di rime inedite e sorprendenti: si tratta di una liricità diffusa, semplice a una prima lettura, che impregna testi di un’impronta sostanzialmente narrativa. “Tragoedia” (Editrice Zona, Arezzo 2008), dal quale sono tratti i versi qui pubblicati, contiene una corona di sonetti assai lontana dall’idea di canzoniere, dove l’amore è declinato nelle sue forme terrene più svariate. Se la sezione “Sonetti al bastardo” ripercorre una vicenda amorosa fatta di un continuo ritrovarsi e abbandonarsi, cercarsi, ignorarsi; la sezione “Familiares” trova il suo centro tonale nel rapporto con la terra d’origine, la Sardegna, con la madre e il padre, con una parente della quale si ripercorrono gli ultimi giorni di vita. È un amore, quello di Farina, dal risvolto amaro, dominato dal senso dell’abbandono, dalla precarietà della perdita, dove spesso la versificazione si fa rocciosa, inquieta, tagliente, drammaticamente consapevole di un destino di dolore. È dunque un amore che non può che sfogare, nell’ultima sezione “La tragedia dei giorni”, nella riflessione sul sé, sui percorsi fatti, su ciò che si deve compiere, su ciò che si è ricevuto dalla vita. Si tratta forse dei testi più forti, percorsi da una vena di sofferenza che proprio nella riproposizione della tragedia dell’esistere donano al lettore una possibile, personale catarsi. Ecco dunque che se Francesca Farina ricorda nel sonetto d’incipit come il suo stesso cognome sia grano che diventa pane e nutrimento, il testo di congedo contiene invece un’amara meditazione sulla morte: “La tagliola è scattata - che poi sia/ o lutto o malattia o di moneta/ si debba corrispondere ogni frutto -// o nella pania presto è avvoltolata/ la preda, destinata a ogni bassezza,/ consegnata alla morte, estremo lutto.”
Francesca Farina, nata a in Sardegna, risiede dal 1973 a Roma. Fin da giovanissima ha cominciato a scrivere poesie, racconti e diari, questi ultimi premiati in diverse occasioni. Nel 1998 ha curato la pubblicazione di “Framas” (“Fiamme”, in sardo) che raccoglie poesie del fratello, della madre e un suo racconto. Ha pubblicato le raccolte poetiche “Sulle ali dell'angelo”, “Nature morte”, “Metamorphòseon” e “Tragoedia”. Ha scritto, inoltre, tre sceneggiature: una basata sulla “Vita di Vittorio Alfieri scritta da sé medesimo”, una ambientata nella Sardegna dei primi anni Sessanta e intitolata “Tamarikes de preta” (“Tamerici di pietra”) e una tratta dal romanzo “Il giorno del Giudizio” di Salvatore Satta. Diversi sonetti e un romanzo sono in attesa di pubblicazione. Nel corso degli ultimi anni ha ideato e organizzato numerosi eventi culturali, come la “Maratona dei Poeti” e il “Leopardi’s Day” con letture poetiche in occasione dell’anniversario della nascita di Giacomo Leopardi.
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