L’altra Calabria / 1 - La magistrata Alessandra Cerreti ha raccolto le prime collaborazioni al femminile nella ‘ndrangheta
Lei ha trascorso diversi anni a Milano per poi scegliere
Vive sotto scorta da dodici anni, prima a Milano e poi a Reggio. Che tipo di minacce ha subito dalla ndrangheta?
Guardi la mafia raramente minaccia direttamente, manda messaggi in tanti modi: con le dichiarazioni del boss mafioso che “esterna” dal 41bis durante l’udienza, oppure attraverso i giornali che sono più o meno consapevoli della loro “funzione”. Oggi non faccio un passo senza i miei angeli custodi, perché in un territorio piccolissimo come Reggio se io andassi a comprare il pane senza i carabinieri di scorta dopo un’ora lo saprebbero tutti.
Cosa teme di più la ‘ndrangheta nei territori dove lei opera?
Le cosche temono non solo e non tanto gli arresti, ma i sequestri dei beni. L’arresto si mette in conto come un rischio d’impresa, ma se viene intaccato il patrimonio è danneggiato il prestigio criminale, la cosca perde credibilità e potere non solo al suo interno, ma all’esterno con la gente.
Le donne in magistratura sono entrate tardi rispetto agli uomini, oggi fanno fatica a imporsi secondo lei?
Il protagonismo maschile c’è, ma è appunto un dato storico. Le donne in Magistratura sono state introdotte nel ’69, e da meno tempo fanno antimafia. Ma nel mio ufficio la situazione è diversa: ho avuto ed ho dei capi eccezionali e tali limiti mentali non sono neanche immaginabili.
Cosa succede, invece, con gli imputati di ‘ndrangheta?
In un grosso processo che si sta celebrando a Palmi, gli imputati appena mi hanno visto entrare si sono messi ad urlare “vogliamo Di Palma, vogliamo Di Palma”, cioè il collega uomo contitolare del procedimento. Gli imputati di ndrangheta non riconoscono una donna come interlocutore valido, ma la devono subire, non hanno alternativa!
Lei è stata pioniera di un grande risultato: le prime collaborazioni al femminile con Giusy Pesce e Maria Concetta Cacciola. Come è riuscita a rompere i silenzi di quelle donne?
Mi ha agevolato l’essere donna. Le donne di ‘ndrangheta sono costrette a subire, anche se sono intelligenti e se hanno studiato. Ma hanno un senso del pudore molto elevato, parlare di sé di fronte ad un uomo per loro è impensabile. Una volta trattavamo di una possibile relazione extra coniugale, questa ragazza si era chiusa e negava. Poi durante una pausa si è avvicinata e mi ha detto che davanti al collega si vergognava e che avrebbe parlato solo con me. Loro vivono pensando di meritare la morte per il tradimento. Una donna che tradisce l’uomo non è un evento che intacca solo la coppia, riguarda la famiglia, la ‘ndrina, intacca il prestigio criminale.
Che cosa ha spinto le donne di ndrangheta a collaborare oltre all’amore e ai figli? E che significato assumono queste collaborazioni?
Decidere di collaborare può diventare un atto d’amore nei confronti dei propri figli perché gli si dà la libertà di scegliere. Loro ripetono sempre: “Mia figlia sposerà un mafioso, poi verrà arrestato e farà la vita mia. Mio figlio a 14 anni avrà una pistola, farà il killer, poi passerà di grado nella ‘ndrangheta” vedendo in questo una predestinazione. Noi siamo riusciti a fare leva su queste convinzioni e a romperle. Ci sono donne particolarmente attente e intelligenti, usano internet che è uno strumento eccezionale perché apre una finestra sul mondo e consente di emanciparsi. Ma spesso mi sento dire da queste donne “I figli sono miei, i figli sono miei” ripetuto come un mantra quasi per sollevarsi dai sensi di colpa nell’accusare la famiglia. L’amore per i figli è più forte dell’amore per il padre, per la madre, per i fratelli. Le collaborazioni femminili sono viste in maniera assolutamente nefasta dalla ‘ndrangheta. È una spina nel fianco, perché intacca il potere e il prestigio criminale all’esterno perché vuol dire che la cosca non riesce a tenere a bada più le proprie donne. In alcuni processi è emerso che una cosca avversaria alla notizia di una collaborazione femminile abbia festeggiato.
Da alcuni processi viene fuori un quadro terribile: ci sono casi in cui le donne rifiutano di sposarsi con il boss vengono rapite e violentate. Sono rapporti di sopraffazione nei quali la donna è solo un oggetto di scambio. Si può ribaltare questa condizione allo stato delle cose o no?
Si può ribaltare se interviene il ripudio dei valori della cultura mafiosa, perché accanto ai pochi episodi di donne che alzano la testa e che si ribellano, ne abbiamo decine e decine che sono fedeli al dettato mafioso, sono donne combattive che hanno dei ruoli attivi all’interno dell’organizzazione mafiosa.
Che ruoli ha la donna all’interno delle cosche?
I ruoli che noi siamo riusciti a fotografare sono quelli di ambasciatrice, di intestataria fittizia, anche ruoli attivi nelle estorsioni, sono cassiere. Ci sono donne che prendono i proventi delle estorsioni e li portano ai maschi detenuti in carcere. Fino ad ora si pensava che le donne non avessero nessun ruolo, a mio avviso c’è stato un errore prospettico di genere: lo pensavano gli investigatori maschi, poliziotti maschi, magistrati maschi, c’era il pregiudizio, gli si ritagliava un ruolo molto più ristretto come quello di vivandiera. Le cose sono cambiate in questi ultimi anni. In alcuni processi è emerso che, nel corso di una faida, proprio le donne aizzavano i congiunti maschi ad uccidere anche donne e bambini, per evitare che si riproducessero. Una detenuta mi ha detto che per loro costituisce una novità il fatto che si arrestano anche le donne.
Secondo lei c'è uno specifico 'femminile' che le donne impegnate nella Magistratura e nelle forze dell'ordine possono mettere o forse stanno già mettendo?
Sicuramente si, non dico niente di nuovo. La donna apporta una professionalità di tipo diverso perché ha un intuito diverso da quello maschile, un’altra sensibilità che a volte premia. La donna, anche con la stessa professionalità, riesce a vedere da un angolo prospettico diverso. Non siamo tantissime nella Dda di Reggio, fino a poco tempo fa eravamo in tre, ora siamo in due donne su dodici, però ci siamo!
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