Pawlikowski rimette in discussione ogni cosa artistica e personale, per osservare l’orizzonte da una panchina. E spostarsi di nuovo: “Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”
Lunedi, 11/02/2019 - Cold War
di Adriana Moltedo esperta di Comunicazione e Media
Cold War è un film diretto da Paweł Pawlikowski. Il film ha ricevuto tre nomination ai premi Oscar 2019, tra cui quella nella categoria miglior film in lingua straniera.
Pawlikowski si conferma un grandissimo talento della cinepresa, che sa esplorale la materia sensibile come solo autori come Robert Bresson e Ingmar Bergman hanno saputo fare
Privo di facile retorica, rigoroso, elegante, straordinariamente austero, ma allo stesso tempo intenso e magnetico.
Nel 2018 Cold War vince il premio per la miglior regia al Festival di Cannes.
Raramente, il cinema mondiale trova opere di tale impeccabile bellezza formale che ben si sposano con temi vibranti ben impersonati da due ritratti tormentati, in una Polonia struggente, di giovane modernità ma, ancora morbosamente e implacabilmente trattenuta.
Cold War è una storia che nasce dalla realtà del regista, che ha dichiaratamente dedicato il film ai genitori, i cui nomi sono quelli dei protagonisti del film, Zula e Wiktor, morti appena prima della caduta del Muro di Berlino nel 1989, e alla loro vita passata prendendosi e lasciandosi, separandosi o rincorrendosi…
"Erano tutte e due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale", ricorda Pawlikowski nelle note ufficiali, raccontando la genesi di una 'elaborazione' non facile. Che è passata necessariamente anche dalla scelta di location molto vicine, tra loro e al cuore del regista di Varsavia.
"Tutte le scelte sono state prese in modo spontaneo, seguendo una logica, - ha dichiarato Pawlikowski. - Alla base non c'è nessun intento intellettuale, fanno parte del film. Una volta che capisci che forma dovrà avere il film, è quest'ultimo a dettare le scelte. Durante le riprese esiste un momento magico, che è quando ti accorgi che è il film che comincia a dirigere se stesso e tutto quello che devi fare è solo prestare attenzione".
La giovanissima Zula viene scelta per far parte di una compagnia di danze e canti popolari nella Polonia alle soglie degli anni Cinquanta.
Tra lei e Wiktor, il direttore del coro, nasce un grande amore, ma nel '52, nel corso di un'esibizione nella Berlino orientale, lui sconfina e lei non ha il coraggio di seguirlo.
S'incontreranno di nuovo, a Parigi della scena artistica, diversamente accompagnati, ancora innamorati. Ma stare insieme è impossibile, perché la loro felicità è perennemente ostacolata da una barriera di qualche tipo, politica o psicologica.
Zula (Johanna Kulig), vero cardine espressivo del film, è il mito del femminile slavo, un miscuglio di fisicità barbarica e di interiorità oscura, di bellezza primordiale e di emozioni trattenute ed enigmatiche.
Un personaggio che ha un enorme spessore poetico e che rappresenta il concetto del femminile inteso come luogo dell’assoluto, dell’imprevedibile e dell’impossibile.
La sua forza sensuale e la sua profonda tristezza ricordano Marilyn Monroe anche quando canta.
Così, i primi piani che Pawel Pawlikowski dedica alla destabilizzante e straordinaria Johanna Kulig divengono delle vere e proprie icone.
Il suo innamorato, un musicista inquieto fuggito in Francia, interpretato da Tomasz Kot, è una sorta di personaggio-comprimario, di puro sostegno collocato per sorreggere l’intera architettura emotiva del film incarnata nel corpo-volto dell’inafferrabile Zula.
Gazie agli aspetti estetico-fotografici della lingua cinematografica, grazie alla fotografia di Lukasz Zal, il bianco e nero è ora nitido e riflettente, ora totalmente rarefatto, perso dentro un mondo di sfumature di grigi che rappresenta una specie di marchio di fabbrica dello stile visivo del cineasta polacco.
Questo lungometraggio di Pawlikowski rimane un lavoro fortemente figurativo, disperatamente fotografico, e dunque pienamente estetico.
Agli elementi visuali si somma un impianto sonoro, dal suggestivo e trascinante folk tradizionale si arriva alle contaminazioni jazz parigine di fine anni ’50 che trova e in talune atmosfere la chiave per amplificare all’ennesima potenza la dimensione comunicativa di sequenze e inquadrature.
I temi della guerra fredda, dell’ideologia comunista, del sistema occidentale-capitalistico, così come quelli melodrammatici dell’amore contrastato e quasi impossibile si manifestano solo come fattori di contorno, come pre-testi utili a rendere Cold War un film appetibile anche per il mercato del cinema e per il pubblico.
Pawlikowski rimette in discussione ogni cosa artistica e personale, per osservare l’orizzonte da una panchina. E spostarsi di nuovo: “Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”.
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