COGNOME MATERNO prima SENTENZA in Italia - Palermo 1982
Pensiero patriarcale e modernità in un documento che stimola una valutazione approfondita del Disegno di Legge sul cognome. In altri due articoli i commenti.
La sentenza del Tribunale civile di Palermo, che qui si riporta, bocciò nel 1982 l’eccezione di costituzionalità sollevata nel 1980 dalla ricorrente I. N. con la prima causa civile italiana per l’attribuzione del cognome materno alla prole (nel caso in oggetto, come aggiunta al paterno nel matrimonio).
Benché, alla luce della condanna inflitta all’Italia nel 2014 dalla Corte EDU per un ricorso d’impianto differente (solo il cognome materno, nel matrimonio) il rigetto si riveli infondato in rapporto ad alcune delle sue motivazioni, la sentenza - oltre a costituire il punto d’inizio nel succedersi di analoghe richieste - contiene interessanti delucidazioni in merito alla titolarità del diritto al nome e all’assenza del diritto di trasmissione, che sembra opportuno porre in relazione col disegno di legge n. 1628, “Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli”, oggi in attesa di discussione al Senato.
FATTO
Con atto di citazione notificato il 24 giugno 1980, la ricorrente I. N. si rivolgeva al Tribunale ordinario di Palermo per chiedere l’attribuzione anche del suo cognome alle due figlie, nate rispettivamente nel 1966 e nel 1968. I convenuti - il Ministro dell’Interno, il Sindaco di Palermo, il Procuratore della Repubblica e A. G., marito dell’attrice - presentavano opposizione alla richiesta. Il 19 febbraio 1982 il Tribunale di Palermo Sezione Prima Civile, composto dai Signori: Dott. Stefano Gallo, Presidente; Dott. Gaetano Tomaselli, Giudice; Dott. Salvatore Salvago Giudice rel. ed estensore, riunito in Camera di Consiglio emetteva la seguente SENTENZA nel processo civile iscritto al n. 3900/80 del R. G. affari civili contenziosi.
TRASCRIZIONE INTEGRALE DEI MOTIVI DELLA DECISIONE
«Tutti i convenuti hanno preliminarmente eccepito il difetto del giudice ordinario in quanto l’aggiunta del cognome materno può ottenersi nel vigente ordinamento soltanto con uno speciale provvedimento amministrativo di natura concessoria regolato dalla legge delegata sull’Ordinamento dello Stato Civile -art.153-164 R.D. 9 luglio 1939 n. 1238-.
L’eccezione risulta infondata: è ben vero infatti che la posizione del cittadino di fronte al predetto procedimento ed al “decreto concessivo” del Capo dello Stato che lo definisce (art. 157 1° comma) non è di diritto soggettivo, ma semmai in caso di diniego “contra ius” del provvedimento permissivo, di interesse legittimo all’osservanza da parte della P. A. della menzionata normativa, tutelabile di conseguenza davanti al giudice amministrativo.
Sennonché Iole Natoli, come la stessa ha ripetutamente precisato nelle proprie difese, ha escluso di voler promuovere siffatto procedimento “nel quale la modifica del cognome è subordinata ad una valutazione discrezionale sull’esistenza di motivi plausibili per ottenerla”, ma ha dedotto di essere titolare di un diritto soggettivo perfetto a trasmettere ai propri discendenti il suo cognome.
L’attrice, cioè, ha chiesto l’attribuzione alle figlie anche del cognome materno non già nell’interesse di queste ultime ed in quanto minori, e quindi agendo in nome e per conto loro, bensì nell’interesse proprio e per far valere un autonomo diritto proprio, tratto dal combinato disposto degli artt. 3, 29, e 30 Cost.; sistema questo alla luce del quale risulterebbe illegittima perché lesiva della dignità sociale della donna e della sua posizione di moglie e di madre la prassi di attribuire ai figli il solo cognome paterno, peraltro fondata unicamente sulla norma dell’art. 237 cod. civ. che indica fra i fatti costitutivi del possesso di stato di figlio legittimo, l’aver portato il cognome del padre.
In tal modo precisata la “causa petendi” della domanda, erroneamente qualificata e interpretata dai convenuti in base ad una sola parte del “petitum”, restano superate tanto l’eccezione di difetto di legittimazione attiva (rectius: di titolarità attiva del rapporto) della Natoli formulata dal convenuto G. sull’erroneo presupposto che la moglie avesse agito in rappresentanza delle figlie minori, affidate soltanto a lui dall’autorità giudiziaria, quanto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva (rectius: titolarità passiva del rapporto) del Ministero dell’Interno, prospettata dall’Avvocatura sull’identico erroneo presupposto che l’attrice per ottenere l’attribuzione della propria famiglia d’origine volesse e dovesse esperire il menzionato procedimento di cui al R. D. n. 1238 del 1939 di competenza del Ministero di Grazia e Giustizia.
Attiene invece al merito della controversia verificare la sussistenza e la fondatezza del diritto invocato dalla Natoli di trasmettere ai discendenti quale donna e/o madre il proprio cognome e più specificamente stabilire se tale diritto sia ricollegabile ad un principio già vigente nell’attuale ordinamento dello Stato Civile, se debba invece ritenersi introdotto dai menzionati artt. 3, 29, 1° comma e 30 1° comma della Costituzione, ovvero escluso, secondo l’assunto dei convenuti G. e Comune di Palermo anche dal nuovo sistema costituzionale (Cass. S.U. 23 maggio 1975 n. 2056 in motivaz.).
A tal fine giova rilevare che per la configurazione e l’attribuzione di un autonomo diritto della donna di trasmettere ad altri il proprio cognome occorrerebbe anzitutto recepire da un lato l’arcaica e da tempo abbandonata concezione dottrinaria più rispondente alla normativa di passati regimi che comprendeva il diritto al nome tra i diritti reali, considerandolo un bene patrimoniale esteriore rispetto al soggetto e quindi oggetto di un suo diritto di proprietà; e dall’altro il principio, pur esso superato, che l’acquisto del cognome avvenga per “successione” (sia pure) “inter vivos” dai genitori ed esclusivamente per volontà di questi ultimi; nozioni queste che se ebbero un qualche seguito durante la vigenza del codice abrogato, più non si conciliano con le direttive fondamentali introdotte dalla Carta Costituzionale che considera il nome esclusivamente come un bene personale (art. 22) che la repubblica si impegna a garantire annoverandolo tra i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (art. 2). Ma il contrasto diviene insanabile ove si consideri ancora che il preteso autonomo diritto -sia esso qualificato reale, ovvero assoluto- per essere tale deve necessariamente collegarsi con un particolare obbligo a carico dei soggetti nei confronti dei quali verrebbe riconosciuto dall’ordinamento, primi fra tutti gli stessi figli, i quali resterebbero di conseguenza “obbligati” a subirlo come nel caso in ispecie, anche contro la loro volontà; la madre o la donna, infatti, non potrebbe sentirsi protetta nella situazione di vantaggio attribuitale dall’ordinamento ove anche questi ultimi non fossero tenuti (in base all’ordinamento) ad assicurare sia pure con il solo contegno passivo di chi subisce le condizioni per il godimento di tale posizione giuridica.
Sorgerebbe in tal modo una specifica quanto singolare obbligazione, a carico peraltro dei soli figli legittimi e di quelli naturali contestualmente riconosciuti da entrambi i genitori, contraria quindi a qualsiasi ragionevole uguaglianza e giustificata soltanto dalla necessità di assicurare alla madre un diritto nell’esclusivo interesse di quest’ultima onde garantirle parità giuridica e morale con il coniuge di sesso maschile.
Sennonché proprio siffatta concezione di un bene appartenente alla sfera giuridica del figlio inteso come “diritto” proprio ed autonomo dei genitori è resistita ed avversata dai precetti contenuti negli artt. 29 e 30 Cost. i quali nell’enunciare i presupposti sui quali si fonda l’istituto giuridico della famiglia e nell’individuare i doveri ed i diritti dei genitori, li considerano come manifestazioni congiunte ed inscindibili di uno “status” attribuito ed ordinato per il raggiungimento di interessi non solo del soggetto attivo, ma anche e soprattutto del soggetto passivo, (ed in ciò sta la peculiarità dello “status” di padre e/o di madre) nonché per il conseguimento di interessi superindividuali, quali l’esigenza pubblica che il figlio, specie se minore, riceva la prima e fondamentale protezione nell’ambito della sua famiglia; “status” quindi che è a concepirsi come una complessa situazione comprensiva di diritti ed obblighi, di poteri e doveri, in ordine all’assistenza, all’allevamento e al mantenimento dei figli (art. 30 1° comma “è dovere e diritto”), ma sempre e soltanto nell’interesse di questi ultimi; altrimenti il diritto o il potere del genitore non troverebbe fondamento alcuno.
Né una deroga ai suesposti principi, può trovare ingresso per la necessità di compensare l’identico diritto di trasmettere ai discendenti il proprio cognome, attribuito secondo la Natoli, al padre cui pertanto non potrebbe essere consentito “un più ampio diritto senza con ciò attentare al principio di eguaglianza e di pari dignità della donna nell’ambito della famiglia (pag. 5 atto di citazione), in quanto proprio questa erronea premessa circa la sussistenza nel genitore di sesso maschile di siffatto diritto, rende palese il macroscopico equivoco logico-giuridico in cui è caduta l’attrice e che probabilmente ha costituito la ragion d’essere della sua pretesa: invece il diritto al cognome che si acquista al momento della nascita, è attribuito alla persona “per legge” (art. 6, 1° comma cod. civ.) in quanto considerato già dalle norme contenute nel codice civile, strettamente inerente alla persona che rappresenta ed individua in sé medesima e nelle sue azioni (esso fa sì che a ciascuno siano ascritte le sue proprie azioni). Per mezzo di tale diritto si realizza il bene dell’identità, consistente nel distinguersi nei rapporti sociali, dalle altre persone, risultando per chi si è realmente e riceve quindi tutela l’identità personale; e l’identità personale è un modo di essere morale della persona, un bene esclusivamente personale -e cioè proprio soltanto del soggetto cui appartiene-, non contenente in sé stesso una immediata utilità di ordine economico.
Tale natura e funzione assolutamente personale è integrata ed accentuata dai principi fissati dalla Costituzione la quale, come rilevato dalla più qualificata dottrina e dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, con indirizzo ormai consolidato, ha affermato l’esistenza di un diritto assoluto di personalità -inteso come diritto alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell’uomo come singolo- nel quale si esauriscono senza esaurirlo le particolari situazioni disciplinate dalle norme volte alla tutela del nome, (art. 6 e 7 cod. civ.) dell’immagine, della segretezza, (art. 10 cod. civ. e 9 e segg. legge sul diritto di autore), della corrispondenza (art. 93 e segg. stessa legge) e così via.
Ed è appunto questo sistema imperniato sul riconoscimento e la garanzia dei diritti dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 cit.) -prima fra tutte la famiglia- e sull’impegno di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2° comma Cost.) a fornire fondamento positivo a siffatto assunto che nel vigente ordinamento la persona umana è un valore unitario i cui interessi se pure possono essere isolati concettualmente, conservano tuttavia, necessariamente, un comune punto di riferimento oggettivo e sono sostanzialmente solidali tra di loro; talché le varie forme di tutela non costituiscono il fondamento di diversi, autonomi, diritti della personalità, ma punti di emersione di un diritto unico a contenuto indefinito e vario di cui il nome costituisce una posizione speciale e concreta nonché uno degli aspetti particolari, (Cass. 20 aprile 1963 n.990; 1 febbraio 1962 n. 201 e da ult. 27 luglio 1978 n. 3779).
In tal modo individuata la funzione del nome (nella duplice componente del prenome e del cognome), di mezzo di significazione della complessiva personalità del soggetto, esso non può che condividerne le caratteristiche intrinseche ed essere al pari di quest’ultima un diritto assoluto, che può farsi valere dal titolare contro tutti, irrinunciabile ed immutabile (salvo in quanto non sia ammesso nelle forme di legge) e soprattutto personalissimo, cioè che ha per oggetto un bene invalutabile nonché appunto un mezzo di individuazione della persona, inseparabile da essa e strettamente inerente al suo titolare; diritto quindi che non può neppure essere ipotizzato al di fuori del soggetto cui appartiene né configurato come autonomo potere appartenente a terzi e nell’interesse di questi ultimi, senza perdere la sua ragion di essere e quella della sua stessa tutela.
Né può ritenersi che la personalità del nome attiene soltanto alla sua attribuzione, al suo mantenimento ed alla sua difesa, ma anche alla determinazione delle sue componenti in quanto ciò è vero soltanto per il prenome la cui scelta è rimessa da una norma speciale (art. 70 e segg. Ord. St. Civile) non suscettibile quindi di estensione analogica, anzi tutto alla discrezionale volontà dei genitori e quindi all’intervento del giudice, in caso di contrasto tra questi ultimi. (art. 316 e segg. Cod.Civ.)
Ma in ordine al cognome, per la necessità anche sociale di identificare con un massimo di certezza i soggetti della vita e dell’attività giuridica (già le fonti romane ammonivano che “interest et homini et reipublicae nomina significandorum hominum officio fungere et adimpleri”) il legislatore ne ha rigidamente predeterminato in modo automatico i criteri di “imposizione” nelle varie ipotesi di filiazione (riconociute e ??????) l’attribuzione da parte dell’Ufficiale dello Stato Civile, con i limiti e le cautele espressamente stabilite se il soggetto è sprovvisto di alcuno “status” di figlio (art. 71 e 75 r.d. n. 1238 cit.):cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto nell’ipotesi di filiazione naturale e quindi cognome della madre se questa lo ha riconosciuto per prima (art. 262, 1° comma) nonché nel rapporto di filiazione legittima.
In quest’ultimo caso, invero, l’art. 73, R.D. 1238 non prescrive espressamente l’attribuzione del cognome paterno, ma trattasi di un principio secolare riconosciuto dal diritto “ab immemorabili” che, come rilevano le stesse parti, è talmente radicato nelle consuetudini e penetrato nel costume da essere accolto universalmente in tutti gli Stati e da non potersi quindi dubitare del suo valore giuridico. E che questa regola sia stata recepita anche nel nostro ordinamento non può ragionevolmente dubitarsi argomentando “a fortiori” dal disposto degli “artt. 262 e 292 cod. civ. ed atteso l’inequivoco tenore della norma contenuta nell’art. 237, 2°comma cod. civ. secondo cui per il possesso di stato di figlio legittimo è necessario tra l’altro “che la persona abbia sempre portato il cognome del padre che essa pretende di avere”: norma questa dettata nell’esclusivo interesse dei figli legittimi e diretta ad attribuire a quanti di loro provino di essere in possesso del relativo “status” il diritto di portare il cognome del padre e non viceversa come prospettato dall’attrice cui pertanto non potrebbe attribuire, neppure se dichiarata costituzionalmente illegittima il diritto di trasmettere ai discendenti il proprio cognome, così come nell’attuale formulazione non lo attribuisce al padre (o al marito), trattandosi di un diritto di esclusiva pertinenza di questi ultimi e quindi da essi soltanto reclamabile.
Anche per i figli legittimi e per quelli naturali contemporaneamente riconosciuti da entrambi i genitori, infatti, l’acquisto del relativo cognome non costituisce il contenuto di un diritto paterno di trasmetterlo loro, (così come per i figli naturali riconosciuti per primi dalla madre non sussiste un analogo diritto di costei) né avviene per successione in un presunto diritto di tale natura, perché il figlio acquista il cognome del padre ancora portato da questo.
Egli acquista invece “ipso iure”, vale a dire per volontà della legge, lo stesso cognome del padre il quale, come ha osservato la più attenta dottrina, non si trasmette dal padre al figlio, ma si estende da quello a questo: trattasi cioè di un acquisto necessario che prescinde dall’interesse dei genitori (quale che ne sia il sesso) e quindi dal vantaggio o dal pregiudizio che a ciascuno di essi possa arrecare; tant’è che non può essere eliminato nemmeno dalla loro concorde volontà, né tanto meno dalla loro congiunta opposizione, ma modificato, se ne ricorrano le condizioni e le ipotesi previste dalla legge soltanto per volontà del suo titolare (o dei suoi rappresentanti legali se minore) con il menzionato procedimento di cui agli artt. 153 - 164 R. D. n. 1238 del 1939.
Ed anche in tal caso il riflesso pubblicistico incide in tal misura che il potere di concedere il mutamento è riservato a una valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione e che di contro neanche al titolare del cognome è attribuito un diritto soggettivo ad ottenerlo, bensì soltanto un interesse legittimo.
Certamente i predetti criteri (e non soltanto quelli relativi ai figli legittimi) non costituiscono un sistema ottimale né esente da critiche anche alla luce delle ideologie via via penetrate in questi anni nella coscienza sociale; per cui può concordarsi con l’attrice sulla necessità di nuove prudenti soluzioni normative non solo nella disciplina sostanziale del modo di acquisto di questo particolare segno distintivo della personalità, ma anche nel regolamento correlato al suo successivo mutamento.
Ma nel vigente ordinamento tra l’interesse dello Stato alla predeterminazione ed al controllo del cognome dei propri cittadini ed il diritto di costoro a non subire l’imposizione se non negli stretti limiti in cui l’interesse pubblico richieda il sacrificio, non vi è spazio per un eguale diritto di imposizione e/o trasmissione da riconoscere autonomamente a terzi estranei al nome, anche se legati al suo titolare dal particolare status di “padre” o di “madre”; a meno che per evitare il pregiudizio che possa derivare agli interessi di fatto ed alle mutevoli ideologie di questi ultimi non si vogliano riesumare antiche tradizioni autoritarie del rapporto genitori-figli (e dei diritti dei primi sui secondi) che restano tali anche se invocate in nome della Carta Costituzionale
Le domande della Natoli vanno pertanto rigettate sotto ogni profilo dedotto mentre in ordine alle spese del giudizio, la assoluta novità delle questioni trattate ne consiglia la compensazione tra tutte le parti.
P. Q. M.
Rigetta le domande formulate da Iole Natoli e dichiara interamente compensate tra tutte le parti le spese del giudizio.
Così decisa nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile del Tribunale di Palermo il 19 febbraio 1982.
Il Presidente Stefano Gallo
Il Giudice est. Salvatore Salvago
Depositata in Cancelleria oggi 24 Marzo 1982».
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Note a margine:
N. SENT. 865/82
N. R.G.390080
N. CRON. 5552
N. REP. 1585
OGGETTO: Condannatorio
Udienza Collegiale 12/2/1982
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Articoli citati nella sentenza del Tribunale di Palermo:

art. 237 cod. civ; artt. 2, 3, 22, 29 e 30 Cost; art. 6 cod. civ.; artt. 153-164 e 70 e segg. Ord. st. civ. 1939 n. 1238; art. 7 cod. civ; art. 10 cod. civ; art.9 e segg. e art. 93 e segg. legge sul diritto di autore; art. 316 e segg. Cod. civ.; artt. 71 e 75 r.d. n. 1238; artt. 262 e 292 Cod. civ.
Sentenze citate in detta sentenza:
Cass. S.U. 23 maggio 1975 n. 2056 in motivaz.; Cass. 20 aprile 1963 n.990; Cass. 1 febbraio 1962 n. 201; Cass. 27 luglio 1978 n. 3779.
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