Mondo/ Afghanistan - Feste per la sua liberazione. Si lascia alle spalle un Afghanistan a pezzi. Ma appena scesa dall’aereo ha dichiarato: “Tornerò laggiù!”
Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2005
Clementina Cantoni torna a Milano, dai suoi genitori, dopo una breve visita agli uffici giudiziari di Roma per essere sentita dagli inquirenti. Termina così i suoi 24 giorni di sequestro in Afghanistan che hanno fatto guadagnare ai rapitori il rilascio della madre del capo banda Timor Shah e, pare, 200mila dollari. Ma in questo le notizie sono contraddittorie: il ministro dell’interno afgano Ali Ahmad Jalali in una conferenza stampa ha detto a Kabul: “Non abbiamo fatto concessioni ai rapitori. La liberazione di Clementina Cantoni è il risultato di un duro lavoro della polizia e della nazione”.
Sebbene i rapitori non abbiano agito per conto di gruppi fondamentalisti, la vicenda ha riportato i riflettori sull’Afghanistan e sulle sue precarie condizioni politiche, sulle perplessità riguardo all’idea di una facile riproducibilità della democrazia, e sugli altri sequestrati occidentali ancora nelle mani dei loro rapitori (come Florence Aubenas e Hussein Hannoun in Iraq).
Le donne afgane, nonostante la liberazione dal regime talebano, continuano a indossare il burqa per motivi di sicurezza. Lo stesso ministro della Difesa, Antonio Martino, ha espresso preoccupazione sulla sicurezza nel Paese. In questi ultimi mesi i talebani si sono riorganizzati e hanno sfidato il presidente Karzai respingendo un'amnistia per il loro leader religioso mullah Omar, proposta su indicazione americana visto che da tempo Washington pare stia sponsorizzando un loro rientro in politica, a partire dalle prossime elezioni che saranno in ottobre.
Un osservatore attento della situazione afghana, il giornalista pakistano Ahmed Rashid, fa notare che “nulla potrà restituire all'Afghanistan unità politica, viabilità sociale, sviluppo e autosufficienza economica finché non avrà riacquistato quel minimo di infrastruttura che c'era nel 1979 prima dell'invasione sovietica”.
Le ong impegnate nel Paese pare che non siano ben viste in quanto c’è una confusione di ruoli, agli occhi del pubblico afgano, tra le forze armate internazionali e le organizzazioni umanitarie in Afghanistan (come in Iraq, come ovunque). Questo ha aumentato i rischi per il personale umanitario. Il breve rapporto di Care e Anso (si può trovare sul sito web di Care Canada), indicava un’escalation di omicidi: 12 persone nel 2003, 24 nel 2004, 5 in questi primi mesi del 2005. Quasi tutti erano personale afghano di Ong nazionali o straniere. E si avvertiva che la situazione sarebbe potuta peggiorare con l'arrivo della primavera proprio per il riassetto delle milizie talebane.
Clementina, dopo aver maturato una notevole esperienza in Bulgaria e Kosovo, era stata nominata responsabile di un programma di assistenza, per conto della sezione canadese dell'associazione umanitaria americana Care International, (programma avviato nel 1996, prima dell'invasione americana) per fornire una adeguata alimentazione alle migliaia di donne rimaste sole con i figli nei distretti 4, 6, 7 e 8 di Kabul, dove si era concentrato il progetto Kwha (Kabul Widows Humanitarian Assistance). La stessa Clementina in un’intervista rilasciata lo scorso 25 marzo al giornale canadese Express Parole, descriveva così il suo lavoro: «Attualmente concentriamo i nostri sforzi in quattro quartieri di Kabul, quelli che sono i più danneggiati da decenni di guerre che hanno segnato la storia del paese. A quanto risulta da un conteggio, nella sola regione di Kabul ci sarebbero circa 60 mila vedove abbandonate».
Intanto i vari signori della guerra continuano a spartirsi il Paese foraggiati, per il mantenimento delle loro milizie, dagli ingenti proventi dell'oppio di cui l'Afghanistan è il primo produttore al mondo (e rappresenta l'80 per cento del Pil afghano).
Solo quest’anno il presidente afghano Hamid Karzai ha avviato la campagna di smantellamento delle vaste coltivazioni di oppio. Il cui traffico è un affare che coinvolge intermediari, grandi trafficanti e signori della guerra, più o meno rappresentati nel governo di Kabul. Ma proprio per questo, la anti-narcotici prende di mira solo i piccoli coltivatori diretti (non quelli protetti dai soliti signori della guerra locali, cioè i comandanti che controllano la situazione sul terreno, provincia per provincia, e con cui anche le forze internazionali sono venute a patti) provocando vere e proprie rivolte popolari nelle province meridionali e orientali con l'arrivo degli “sradicatori”.
La giornalista Giuliana Sgrena, sul Manifesto, spiega che: “Il progetto di smilitarizzazione è miseramente fallito. E contro le varie milizie ben poco possono le truppe dell'Isaf (International security assistance force) sotto comando Nato schierate a Kabul o sparpagliate in qualche provincia del paese con presunti compiti di ricostruzione. Che non è mai partita veramente. Anche perché i finanziamenti per la ricostruzione subiscono pesanti taglieggiamenti dalla corruzione che dilaga a livello istituzionale”.
Questo il panorama che Clementina si lascia alle spalle. Il Paese dove le donne che hanno manifestato per la sua liberazione hanno sfilato con il burqa. Il Paese dove le attiviste del Rawa - il movimento afgano di emancipazione delle donne - vengono perseguitate come fuorilegge, ed i loro diritti sono ancora utopia. Ma Clementina, appena scesa dall’aereo, ha dichiarato con coraggio: “Tornerò laggiù per continuare il mio lavoro!”
(10 giugno 2005)
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