Domenica, 31/05/2020 - Cinema sul retro, il racconto di Matilde Tortora
Ho avuto diciott’anni più di una volta, anche mesi fa entrando in una sala di cinema per ballare stretta ad alcuni dei miei sogni, ai piedi non i consueti stivali di inizi dicembre che avevo indossato per ripararmi dalla pioggia, ma quel che mi parve fossero scarpe fini a punta. E più adatte alla bisogna.
Lo schermo era già acceso, anche se le luci in sala erano ancora non del tutto spente, ma solamente abbassate. Lo schermo mi apparve essere fatto come di pelleova, rallentai i passi, per allinearmi a quella finissima tessitura.
Mi venne in mente che zia Rosellina con la sua macchina da cucire Singer, ogni qualvolta si annunciava una nascita nella nostra numerosa famiglia, tagliava e cuciva impalpabili indumenti in pelleova per il nascituro o per la nascitura.
In uno scomparto della sua Singer scorgevo anche una cesta con rocchettine di cotone e piccoli bottoni, alcuni luminescenti di madreperla, che sul retro avrebbero concesso di abbottonare le camicine al neonato.
Il Poliziano ebbe a scrivere secoli fa: m’illudo di toccare come anguilla la lingua, intendendo il toccare le parole, le innumerevoli parole che andava scrivendo e investigando fino a farne poesia.
Anche a me è parso, più di una volta, di toccare le parole come sguscianti anguille, e di avere, nel contempo, sulle labbra il sapore rosso velluto di alcune tende, mentre sulle mani persisteva una piccola scheggia di legno che mi aveva punto nel ribaltare il sedile per sedermi al cinema, il che (scheggia e sapore) mi faceva più certa di essere nel posto giusto, laddove davvero volevo stare.
Da quel dicembre non sono più andata al cinema e andarvi infine è stato a tutti noi precluso. Soppiantato da “io ti vedo, tu mi senti?”, “io ti sento, tu mi vedi?” un mantra troppo chiaro rimbalzato da tante messe in scena online e da profluvie di parole, le più senza sapore.
Ed è invalsa la paura di toccare anche minimi bottoni, di toccare stoffe, figuriamoci poi il tesserle o cucirle.
Sicché infilo e sfilo guanti, ripenso nel farlo alla signora Dalloway di Virginia Wolf che s’appresta a uscire di casa, alla parafrasi sul ritrovamento di un guanto che tanto ispirò l’artista Max Klinger, avverto l’insulso sapore sintetico dei guanti usa e getta e premo bottoni d’avvio dell’ascensore come si potesse, in controluce, scorgere il virus e prenderne le distanze.
Ma nei sogni io m’avvicino alla cassiera, chiedo il biglietto, calzo scarpe dalla punta sottile, vado ogni notte al cinema. E di nuovo ho diciott’anni. Ancora, ancora. Nonostante tutto.
L’opera a corredo del racconto è tratta dalle acqueforti dell’artista tedesco Max Klinger (1857-1920), dal titolo: Parafrasi sul ritrovamento di un guanto
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