Venerdi, 09/04/2021 - Vi racconto del mio viaggio cinematografico che ho intrapreso in questi giorni di lockdown grazie al FESCAAAL, il festival di Cinema di Africa, Asia e America Latina al suo trentesimo compleanno e che ha scelto di trasferirsi online (fescaaal.org) dal 20 al 28 marzo, 24 ore su 24 su Mymovies dietro pagamento di un economicissimo abbonamento.
In parallelo era possibile avere accesso agli incontri con i registi e le registe sulla piattaforma Zoom. 50 i film suddivisi tra il concorso Lungometraggi “Finestre sul mondo” e quello sui Cortometraggi “African short film competition”, Extr'A dedicata agli autori italiani che si confrontano con altre culture. E i film della Sezione Speciale “Donne sull'orlo di cambiare il mondo”.
Questo festival organizzato e promosso dall'Associazione COEmedia Distribuzione Cinema con la direzione artistica di due donne Annamaria Gallone e Alessandra Speciale, dopo un anno di astinenza da viaggi, incontri e cinema nelle sale, ha avuto un successo di pubblico, adesioni e sostegno inaspettati: 1500 gli abbonamenti, 15.000 le persone che hanno assistito agli incontri e 300.000 hanno visualizzato i post. E soprattutto ha offerto la possibilità di esplorare a tutto tondo altri mondi, altre culture attraverso racconti della reale vita quotidiana dei protagonisti, eventi autobiografici dei cineasti o fatti realmente accaduti. Realizzando un coinvolgimento diretto nella vita di bambini, donne, ragazze e ragazzi e uomini che vivono al di là del Mediterraneo, dell'Atlantico e dell'Oceano Indiano, in Paesi con realtà culturali, sociali e politiche molto diverse tra loro. Storie che ci riguardano da vicino come le migrazioni in atto in questa epoca di grandi cambiamenti che sono la globalizzazione economica, il riscaldamento climatico, la pandemia da Covid-19 che ha bloccato il pianeta e tanti altri fattori. Storie drammatiche e intense con interpretazioni magistrali che colpiscono direttamente al cuore.
Tante le registe e le documentariste donne e tante le protagoniste femminili, lo stesso per le bambine e i bambini, le giovani e i giovani interpreti nelle varie sezioni del festival.
Gli organizzatori hanno visionato 600 pellicole arrivate da tutte le parti del pianeta e i 50 film scelti avrebbero tutti diritto ad essere menzionati per l'impegno e i valori sociali, politici e culturali che contengono. Essendo queste pellicole uno straordinario mezzo di conoscenza è al suo secondo anno di vita il MiWorldYoug Film Festival, il primo dedicato all'educazione multiculturale nelle scuole con tre premi da assegnare dalla Giuria degli Studenti, dei Docenti e del Pubblico. Diverse le scuole in varie città italiane che hanno partecipato al progetto ideato dall'Associazione COE. Premiati ex-equo “Softie” di Sam Soko (Kenya 2020) e “Lina da Lima” di Maria Paz Gonzàles (Cile, Argentina, Perù 2019) nel Concorso Lungometraggi “Finestre sul mondo.” Corrispettivamente un protagonista maschile del Kenya e una protagonista femminile del Perù.
“Softie” è un film di politica e amore che fotografa dettagliatamente per dieci anni la vita e le scelte di Boniface Mwangi, fotoreporter, testimone dei tragici avvenimenti susseguitesi in Kenya nel 2007 dopo le elezioni di Uhuru Kenyatta, figlio del primo Presidente del Kenya dopo l’indipendenza dal colonialismo. Il film si apre con una raccolta di sangue in bottigliette d’acqua da parte di alcuni attivisti tra cui Boniface, e del “rapimento” di alcune decine di maiali che si cibavano sulle enormi discariche della metropoli e che serviranno per la manifestazione contro il governo. Su ogni maiale col sangue sarà scritto uno dei nome degli onorevoli kenyoti e saranno scaricati davanti al Parlamento al grido di “Basta oppressione. Basta violenze. Siamo cittadini. Vogliamo la pace”. Nel 2007 Boniface sarà 2 volte fotografo dell’anno per la CNN ma nel suo Paese, i giornali per cui lavora non pubblicano mai le sue foto perché troppo violente. Descritto dai suoi colleghi “Senza paura”, fa il lavoro che ha sempre voluto fare, fotografare la guerra e le violenze. Nato in un povero quartiere alle porte di Nairobi, Boniface vive in una bella casa, ha moglie e tre figli piccoli ma arriva il momento in cui non riesce più a sopportare le recite dei politici e l’indifferenza dei colleghi. Il suo desiderio è quello di un futuro migliore per il suo popolo e in questo modo lo sarà anche per i suoi figli. Organizza una mostra itinerante con le gigantografie delle sue foto che esporrà nei parchi e nelle strade di Nairobi.
La mostra avrà un gran seguito di pubblico con i cittadini in fila per vederla e che avranno modo di riflettere meglio sull’assurdità di tali violenze. Il protagonista racconta che la primissima foto che fece fu quella ad un ragazzo che camminava per le strade di Nairobi e fermato dalla Polizia gli fu chiesto il nome, anzi il cognome che identifica la tribù. Era dei Luho, solo per questo col machete le tagliarono il viso e altre parti del corpo. Boniface spiega come il tribalismo sia nato grazie ai British, sia stato deciso a tavolino per dividere la popolazione. “Gli inglesi una volta arrivati in Kenya hanno dato varie funzioni e ruoli alle tribù dividendo la popolazione. Ad esempio i Kikuyu sono gli intelligenti quelli che imparano subito i lavori dati dai colonialisti e sono molto malleabili e interessati ai soldi, al guadagno. I Luhia sono i cuochi, i custodi. I Kamba sono fedeli servitori”. Boniface fa notare come da quel momento c’è stata una sorta di divisione in caste e se appartieni a una tribù sei segnato a vita. Non ci sono le stesse opportunità per tutti. “Il patriottismo non è l’identità di questo Paese l’identità è la tribù”.
Nel 2013 arriva la sentenza della Corte Internazionale dell’Aia che condanna Uhuru Kenyatta colpevole di crimini contro l’umanità perpetrati nel 2007 dopo le elezioni contro il popolo kenyota che contava più di mille morti. Il Presidente nega ogni responsabilità e tiene un comizio in piazza dove dichiara che i Kikuyu, la tribù a cui appartiene, non meritano una tale umiliazione e li invita ad andare a trovare, casa per casa, i traditori, cioè gli appartenenti ad altre tribù testimoni dei massacri. Sarà ucciso il giornalista John Kituy del Weekly Mirror e altri testimoni dei fatti. Tante le manifestazioni davanti al Parlamento e Boniface è uno di loro e difende i manifestanti cercando un dialogo con la polizia ogni volta. “Basta uccisioni. Siamo dei cittadini avete il dovere di proteggerci”. Sarà portato via in quell’occasione dalle forze dell’ordine e picchiato a sangue. Tornerà dai suoi figli tumefatto ma la scelta è fatta. Fonda con i suoi amici il partito Ukweli Party e si candida per il Parlamento per il suo quartiere Starehe per le prossime elezioni. Suo rivale Jaguar uno pseudo cantante che sfila su un Suv bianco e facendo promesse di ricchezza.
Njiere, la moglie di “Boni”, che ha scelto l’amore prima del popolo, al contrario del coniuge, gli starà sempre accanto anche da lontano, quando soggiornerà negli Stati Uniti in seguito alle minacce di morte al marito, a lei e ai bambini. Boniface fa il possibile e si immerge totalmente in quel fiume di persone che vive per strada, nei mercati, negli slums di Nairobi e qui emerge potentemente la difficile vita dei kenyoti al limite della sopravvivenza. Parla con donne, uomini, ragazzi della necessità di riprendersi il governo perché i soldi vanno ai cittadini ed è necessario cambiare il sistema”. Quello che si sente ripetere fino a non poterne più è “Dammi i soldi”, “Boni è una brava persona ma non ha i soldi”.
Questo meccanismo clientelare che ha fatto la fortuna dei politici corrotti che usano il popolo solo per vincere per poi dimenticarsene è ciò che il partito di Boniface vuole cambiare. Una parte dei cittadini era con lui tanto che raccogliendo anche pochi scellini a testa gli hanno permesso di fare una campagna elettorale di tutto rispetto con moto e volantini gialli sparsi ovunque. Pagheranno con la vita. 30 gli attivisti uccisi prima delle elezioni, durante le quali, nel quartiere di Boni saranno sparati lacrimogeni sulle persone per terrorizzare e impedire il voto di molti. Ma il vincitore era stato già deciso e infatti pochi giorni prima delle elezioni sarà ucciso il responsabile del nuovo sistema di voto informatico che avrebbe dovuto garantire la mancanza di brogli. A vincere sarà di nuovo Uhuru Kenyatta ma il suo rivale Raila Odinga scatena un’ondata di violenze accusando la manomissione del sistema elettorale. Boniface rischia di nuovo di morire per fortuna il proiettile che lo colpisce non gli perforerà il cuore. Nel caos post-elettorale si fa propaganda la Cambridge Analytica, l'agenzia inglese che segretamente da sempre organizza le campagne elettorali di Kenyatta. Sarà criticata da più parti. Boniface ha perso le elezioni e decide di ritirarsi: “Devo restare a combattere ma non in prima linea” mentre la moglie Njiere dirà “Combattevamo per un mondo migliore, per un Kenya migliore. Ora mi sembra di combattere solo per noi." e questo mi sembra il sunto perfetto di questo emozionante lungometraggio che racconta la vita di una famiglia, di alcuni attivisti e di tante persone che vivono a Nairobi. Questo film rappresenta la situazione politico-sociale vigente nella maggior parte dei Paesi Africani governati da Presidenti e politici corrotti e collusi con le lobby economiche mondiali di Europa, Usa, Cina che mantenendo con la violenza la popolazione nella povertà e nell'ignoranza mirano a conservare i loro privilegi e poteri a vita. “Rasta” di Samir Benchick (Francia, Belgio, Costa d'Avorio, 2019, 29') è un cortometraggio che non ha avuto premi forse perché molto violento e parla di un'altro pezzo d'Africa, la Costa d'Avorio. Prima scena: si sente una voce roca e arrabbiata uscire da un altoparlante. Un ragazzo adolescente fugge perché tra poco ci sarà un reclutamento di massa da parte di alcuni militari che sono piombati come avvoltoi nel campo da calcio impolverato pieno di ragazzi. Rastrellano giovani per combattere i ribelli che stanno sconvolgendo il Paese. Il protagonista si nasconde dietro a dei lenzuoli e assoldato da un conoscente parte alla ricerca di un ribelle da cui è stato picchiato a sangue, ma che teme di avere ucciso e non riesce a toglierselo dalla mente. Il suo viaggio sembra una discesa negli inferi, dalla stazione dell'autobus dove vige il caos, con i militari che sparano a caso sulla gente, alla giungla, dove incontra un dj sui generis, che ritma un pubblico completamente stordito da droga e disperazione. Appurerà che il ribelle che cercava è morto ma troverà la madre in un villaggio completamente abbandonato. Con la donna, dalla mole immensa che cercherà di dissuaderlo a restare, riuscirà ad avviare un dialogo che diventerà uno scontro fisico di grande intensità, naturalmente in lingua originale come tutti gli altri film seppur sottotitolati. La donna infine non lascerà uccidere il ragazzo dalla nipote con una pietra come aveva fatto Rasta con il figlio ma lo perdonerà. In questa immane tragedia che dura appena 23 minuti uno spiraglio di luce si intravede: forse alle donne e ai ragazzi toccherà salvare l'umanità. “Da Yie” di Anthony Nti, (Belgio, Ghana 2019, 21') è invece il cortometraggio che ha vinto sia il premio della Giuria Studenti sia il Premio Cortometraggi dell'Africa. Ambientato in Ghana qui i protagonisti sono una bambina e il suo migliore amico di giochi e marachelle. Anche qui uno dei set è un campo da calcio di strada deserto dove pian piano si avvicina un Suv bianco con dentro un bel ragazzo. Ben rasato coi capelli biondi, ben piazzato e ben vestito chiede ai ragazzini che lo conoscono se hanno fame e gli propone di accompagnarlo ad un buffet. Immediata la risposta della ragazzina dal viso severo e vissuto nonostante i suoi dieci o undici anni: “Cos'è un buffet?” e subito accetta. Prince il ragazzino ha molti dubbi, teme le botte della madre ma alla fine si aggrega. Passeranno una giornata indimenticabile in tutti i sensi. Perché dopo la gita al mare e la visione della partita con bibita e cannuccia, il bellimbusto ha altri progetti per loro. Ma i ragazzi grazie ad una video-camera che fa scoppiare una rissa col capo nell'abitazione dove saranno condotti, riusciranno a fuggire ad un tragico destino. Nell'isola di Zanzibar si gira “Sara's Dream” di Nino Tropiano (Italia, Irlanda, Svizzera, 2020 88') un film documentario girato nell'arco di 7 anni e che ritrae le aspirazioni di una giovane ragazza musulmana orfane di madre e sotto patria potestà, che grazie alla sua forza di volontà, dal villaggio di Nungwi riesce ad approdare a Zanzibar City e a diplomarsi. In seguito accetterà il matrimonio combinato offertogli dal padre ma solo perché il marito acconsentirà al proseguimento dei suoi studi. Si costruiranno tra mille difficoltà e la nascita di una bimba, una piccola casetta nella periferia della capitale e Sara finirà anche l'Università. Questo le permetterà di realizzare il suo sogno diventare insegnante. Un bell'esempio di emancipazione femminile in un paese di cultura musulmana in cui le donne devono sottostare a molte regole e usanze tradizionali. FESCAAAL è da sempre una manifestazione molto attenta alla condizione sociale e culturale delle donne e ai problemi di genere. “Celles qui restent” di Ester Sparatore (Italia, Francia, Belgio, 2019, 90') narra la vicenda di un gruppo di donne determinate a conoscere il destino dei loro mariti scomparsi dopo la Primavera araba oppure imbarcatisi e diretti nella nostra penisola e manifestano davanti al Ministero dell'Interno e all'Ambasciata italiana a Tunisi. Sempre in Tunisia si gira “La reve de Noura” di Hinde Boujemaa (Tunisia, Belgio, Francia, Qatar, 2019, 92') dove Noura, dopo la carcerazione del marito violento, con i propri figli inizia una nuova vita sentimentale nonostante rischi di finire in prigione anche lei dato che l'adulterio in questo Paese è ancora un reato. Premio SIGNIS ad “Adam” di Maryam Touzani (Marocco, Francia, Belgio, Qatar, 2019 100') punta i riflettori sulla vita emarginata che sono costrette a condurre le donne che affrontano la maternità o la vita senza un uomo accanto. Invece il toccante “Scales” di Shahad Ameen (Emirati Arabi Uniti, Iraq, Arabia Saudita, 2019, 74') già premiato al Festival del Cinema di Venezia, fa emergere come in alcune società, i pregiudizi negativi sulle donne e le superstizioni su di esse siano ancora talmente radicati da minacciarne la vita. In questo lungometraggio Hayat, una ragazzina di 12 anni, nasce in un povero villaggio di pescatori dove vige una orribile usanza. Ogni famiglia deve sacrificare una figlia femmina alle sirene del mare. Il padre non vuole questo destino per la figlia ma alla nascita del fratello le cose si complicano.
Diversi sono i documentari di antropologhe che hanno filmato le condizioni di vita delle donne alle varie latitudini. Nella sezione Extr'A abbiamo “Paani. Of women and water” di Costanza Burstin (India, Regno Unito 2019 22') che riprende le donne di un piccolo villaggio del Rajastan dove non c'è acqua corrente, dove non ci sono fognature. Queste donne avvolte nei loro coloratissimi abiti impiegano la maggioranza del loro tempo a trasportare acqua sulle loro teste dai pozzi alle loro modeste case. Lungo il tragitto ridono tra di loro. Alle donne in India sono riservati i lavori più duri e pesanti e nonostante ciò sanno essere leggere e ironiche. “Aceh, after” di Silvia Vignato (Italia, Indonesia 2020, 44') mostra la vita che conducono giovani donne in un villaggio dell'Indonesia dove hanno un ruolo cruciale nel mantenimento della famiglia e della comunità. Dopo la cessazione dell'estrazione del gas, campo nel quale i mariti lavoravano, alcuni di loro diventano spacciatori e altri si mobilitano contro il governo che occupa i loro territori con aziende straniere inquinando e lasciando la popolazione disoccupata. Considerati dei ribelli alcuni saranno arrestati, altri uccisi. Il motivo è sempre quello economico e sono le mogli, le donne a testimoniare coraggiosamente questa situazione. Rimaniamo in Asia e per la precisione in Buthan con “Lunana: a Yak in the Classroom” di Pawo Choyning Dorji (Bhutan 2019, 109') che ha vinto il premio della Giuria docenti dentro la rassegna per le scuole MiWorldYoungFestival. Ugyen è un giovane insegnante che vorrebbe fare il musicista, ma il governo le ha assegnato un posto pubblico e condizionato dalla nonna, unica familiare rimasta e seppur di malavoglia accetta l'incarico. Il giovane intraprenderà un lungo viaggio, prima in auto poi piedi, tra le montagne himalayane della durata di alcuni giorni per raggiungere Lunana, un piccolo villaggio isolato dal mondo. I mille dubbi, resistenze e arrabbiature iniziali si trasformeranno nella scoperta felice di una nuova dimensione. I bambini di Lunana sono sereni e felici di imparare e hanno un originalissimo compagno di classe: uno Yak. Un messaggio di come la scuola sia importante anche nei luoghi più sperduti del mondo per rendere le persone coscienti di ciò che è importante.
Verso la fine di questo mio viaggio vi porto in America Latina al lungometraggio Lina da Lima di Maria Paz Gonzàles (Cile, Argentina, Perù, 2019, 83'),vincitore ex equo con “Softie”. Lina viene da Lima in Perù, e per mantenere il figlio e la madre sceglie di trasferirsi in Cile dove fa la domestica presso una ricca famiglia. Ma Lina mantiene la sua indipendenza e dorme in una piccola stanza in un letto a castello con altri tre migranti. In questo film emergono i sentimenti e la superficialità dei ricchi che non apprezzano ciò che hanno in contrapposizione alle vite piene di sacrifici come quella di Lina. Le sue forti emozioni e sentimenti come la nostalgia per il figlio, l'emarginazione, l'essere meticci si mescolano sfociando in una serie di coreografie e canzoni tradizional-popolari interpretate mirabilmente dalla protagonista e che danno alla pellicola quel tocco surreale tutto latino. Lina finalmente ha abbastanza denaro per trascorrere il Natale con il figlio e la madre quindi acquista tutti i regali per i famigliari ma non sa che il figlio ha riallacciato i rapporti col padre, che ha avuto un altro figlio e ormai cresciuto con la ragazza non ha più bisogno di lei. Quando lo scoprirà proverà delusione per il suo destino e si sentirà un po' tradita. Lina nonostante tutto non rinuncia a vivere le sue passioni come la musica e il ballo e gli incontri con uomini passeggeri che la consoleranno un poco. Per un imprevisto e la mancanza di soldi non potrà tornare in Perù ma questo non la priverà del suo ottimismo e della sua voglia di vivere la sua vita giorno dopo giorno anche con leggerezza come tutte le donne avrebbero diritto di fare.
Rimaniamo in America Latina e andiamo ora in Guatemala con “Nuestras Madres” di César Diaz (Guatemala, Belgio, Francia, 2019, 78') che ha vinto il Premio del Pubblico della città di Milano. Il lungometraggio di 78 minuti si apre con un ragazzo che sta ricomponendo i resti di uno scheletro. Di lì a poco saranno tanti gli scheletri in quella stanza. E' la storia di Ernesto, antropologo, che lavora per il Dipartimento forense del Guatemala che ha ottenuto il permesso dalla Magistratura di ricercare e diseppellire i corpi dei guerrillieri e dei civili caduti e sotterrati nelle fosse comuni durante la guerra civile del 1982 dopo il golpe militare. (In Guatemala sono stati 200.000 i morti civili durante i governi militari che si sono succeduti dal 1966). Anche al padre del protagonista probabilmente è toccata la stessa sorte ma non è stato ancora trovato. In questa atmosfera dilatata dove il passato è ancora presente e la sofferenza di quegli anni è ancora viva compare la richiesta di disotterrare il marito da parte di una donna di un villaggio vicino a San Cristobal. L'indigena parla di un guerrigliero che stava con il marito. Ernesto prende la foto del padre e gliela mostra e lei afferma che è quello l'uomo, così pensa di avere finalmente trovato il padre. Intanto la madre che non ha mai raccontato nulla del padre al figlio decide di testimoniare al processo contro i militari. Ernesto che non è mai riuscito a riempire il vuoto lasciato dal genitore mai conosciuto e nominato andrà al villaggio indigeno per gli scavi. Intanto nel cimitero della capitale trovano i resti del padre ma Ernesto scoprirà, prima dall'esito degli esami sul DNA poi dalla confessione della madre in tribunale, una crudele e triste verità: il padre biologico è uno dei carcerieri della madre. Il Guatemala ignorato dai mass media, come l'Argentina, sta ancora scontando la tragedia e le atrocità inflitte alla popolazione dalle varie dittature militari. Un film molto toccante che riempie forse una falla informativa per molti di noi su questo Paese sud americano.
“1982” (Stati Uniti, Libano, Norvegia, Qatar, 2019, 100') è il titolo di un altro interessante lungometraggio Fuori Concorso girato in Libano e in parte autobiografico. Il regista Qualid Mouaness narra quello che successe una mattina dei suoi dieci anni a scuola, durante gli esami finali di quinta, in un collegio circondato dai famosi cedri libanesi sopra le verdi colline di Beirut. In un bigliettino dichiarerà il suo amore per una compagna e prima dell'inizio delle lezioni lo nasconderà nell'armadietto della suddetta. Si tratta di una mattina che non dimenticherà più perché in quelle ore Beirut è sotto le bombe di Israele. Gli insegnanti al corrente di quello che sta succedendo perché, coinvolti direttamente o con i propri famigliari, tengono all'oscuro gli studenti. Una voce di fondo proveniente da una radio sempre accesa nella segreteria della scuola informa il susseguirsi degli eventi. Intanto le scolare e gli scolari continuano le verifiche tra litigi, gelosie e confessioni tra compagne e compagni fino a che non comparirà il fumo alzarsi da alcuni punti della città e i suoni sordi delle bombe in lontananza, inizierà il fuggi fuggi di alcuni studenti ritirati dai genitori. Ma purtroppo non tutti i parenti sono reperibili perché alcune zone della città, come Beirut ovest, sono rimaste isolate come quella della compagna amata che appartiene quindi ad una fazione opposta alla sua. Ma l'amore è più forte. Wassim tra mille peripezie riuscirà a far prendere l'autobus alla sua piccola amata. L'autobus pieno di professori e studenti che scende dalla collina ad un certo momento si arresterà per bloccare l'immagine di una Beirut sotto le bombe. A quel punto il protagonista immagina che il suo eroe preferito, che è un gigantesco robot tipo Goldrake, crea una cupola antimissili sotto la quale le case di Beirut e i suoi abitanti sono salvi. Sarà proprio in quel momento che la compagna vedendo i suoi disegni sul quaderno scoprirà che è lui l'autore del bigliettino e il misterioso corteggiatore e gli sorride, nonostante la guerra si presenti davanti ai loro occhi di bambini.
Sempre due bambini sono i protagonisti di una storia che prende spunto anch'essa dall'esperienza di vita del regista. Ci spostiamo in Messico alla frontiera con gli Stati Uniti con il claustrofobico “Los Lobos” di Samuel Kishi Leopo (Messico 2019, 95') che ha vinto il Premio del Pubblico all'interno del MiWorldYoug Festival.
La protagonista è Lucia, una giovane madre messicana che con i due figli riesce a passare la quasi invalicabile dogana statunitense. Ai perché dei figli risponde che li sta portando a Disneyland in Florida. Sola e alla ricerca di un posto dove dormire e di un lavoro questa mamma si trova costretta a lasciare soli per giorni interi e mesi i figli, Max e Leo di 4 e 6 anni, in un piccolo e fatiscente bilocale affittato a caro prezzo da un'anziana coppia di giapponesi. Per intrattenere i figli durante le sue lunghe assenze inciderà nella cassetta di un vecchio registratore le regole da rispettare e le parole inglesi da imparare per poter entrare a Disneyland. I bambini molto diligenti, tra le regole, l'inglese, i giochi con la palla, sul pavimento e i disegni sul muro supereranno quei giorni infiniti in modo eroico. Eroica è pure la mamma che dopo mesi di lavoro e riposo sul pavimento riuscirà ad integrarsi e a farsi rispettare, in quella comunità di persone che vivono precariamente ai margini della società americana. Alla fine riuscirà a inserire all' asilo e a scuola i suoi bambini e coronerà il loro sogno di andare nel Paese delle favole di Walt Disney.
Per ultimo vi porto in Brasile. Questo film è stato premiato al Sundance Festival nel 2020 e si chiama “Three Summers” della cineasta Sandra Kogut (Brasile, Francia 2019, 95) per la rassegna “Le commedie più divertenti dai tre continenti”. E' un film politico e vuole denunciare come la corruzione vada a braccetto con politica e ricchezza. Le tre estati preannunciano le indagini per corruzione e l'impeachment della Presidente Dilma Rousseff nel 2017. Madà, una governante ecclettica, appassionata del suo lavoro, ci trascinerà grazie all'interpretazione magistrale attraverso i fasti e i fallimenti di una famiglia alto borghese. Il set una villa sopra una collina esclusiva e lussureggiante con mare caraibico a fronte e yacht annesso.
Nel 2015 la famiglia Lira celebra un Natale fastoso e festoso con tanti amici, tanti regali, tante autocelebrazioni e tanti cibi in tavola grazie all' instancabile lavoro di 5 domestici. In tavola le “sushiccette” salsicce sushi, un'idea di Madà. Pochi giorni prima del Natale 2016 Madà riceve alcune telefonate e si vede costretta ad annullare tutti i festeggiamenti e della ricca famiglia pare non esserci più traccia. I domestici sono molto preoccupati perché non ricevono da mesi gli stipendi. Arriva la perquisizione da parte della Polizia che inizialmente accusa anche Madà di essere a conoscenza dei fatti perché i telefonini del padrone sono a lei intestati. Il Signor Lira finisce in prigione per corruzione, rubava a scuole e a ospedali. Moglie e figlio scappano all'estero. A rimanere nella villa è il personale domestico guidato dalla governante Madà con il padre del Signor Lira che aveva dedicato una vita all'insegnamento e non sapeva nulla degli affari illegali del figlio. Proprio lui ha l'idea di creare un sito per quella dimora lussuosa facendola diventare una specie di albergo e infine un set cinematografico. Madà sarà una guida turistica ironica e coinvolgente ma sostituendo un attrice mancante si rivelerà soprattutto un'interprete sorprendente narrando però la sua vera storia che incanterà e farà piangere tutto il set. L'ex professore in pensione muore e lascia il suo piccolo appartamento a Copacabana a Madà che lo ha assistito in quegli anni. La governante felice di avere finalmente un posto tutto suo, vi andrà a festeggiare con la sua famiglia, gli altri domestici, l'arrivo del 2017. Madà con la sua forza di volontà, il suo ottimismo, la sua intelligenza e sensibilità è una donna sui generis, è un personaggio incantevole che rappresenta tante donne coraggiose. Da imitare. Il FESCAAAL (fescaaal.org) non si può non amarlo e non vederlo. E' un Festival di cinema alternativo che tornerà il prossimo anno nello stesso periodo e che offre una varietà cinematografica, di attori, registi e set realistici da renderlo imperdibile. Buona lettura e buona prossima visione.
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