Lunedi, 23/03/2020 - “Volevo avvertire il gruppo che mamma non ce l'ha fatta. Vedremo in futuro, forse, se qualcuno vorrà tenere vivo il gruppo”.
Così l’annuncio sulla pagina face book La pubblicità sessista offende tutti da parte di Ayla Mueller, figlia di Annamaria Arlotta, attivista e studiosa femminista, creatrice dal 2011 di uno dei gruppi social di informazione e critica degli stereotipi di genere nella comunicazione pubblicitaria più importanti nella rete.
Attraverso la pagina, gestita con toni sempre civili con intento didattico e formativo, che aveva anche per questo attratto l’interesse di oltre quindicimila followers, tra cui tremila uomini, Annamaria Arlotta formulò alcune linee guida rivolte alle aziende per il corretto uso dell’immagine dei corpi femminili che propose in un suo articolo sul Fatto quotidiano.
La pagina ha viaggiato fin qui ad un ritmo costante di almeno una o due segnalazione a settimana, in video, audioe in cartaceo, che palesemente risultano lesive della dignità del corpo e della mente delle donne, oltre che dell’intelligenza e del buon gusto in generale, in una gamma che va dal fastidioso all’oltraggioso. Fare un giro nella pagina significa rendersi conto del livello miserevole di molta della ‘creatività’ comunicativa nello storytelling dominante.
Il doppio senso sessuale, la visione degradante del corpo femminile, il trivio del linguaggio da bar, caserma o palestra divenuto discorso pubblico sono un’abitudine alla quale si rischia di assuefarsi. Ed è stata questa la preoccupazione di Annamaria Arlotta: tenere alta l’attenzione sul fenomeno della misoginia e del sessismo verso le donne nella pubblicità, che nella maggioranza dei casi trova facile giustificazione.
“Solo una goliardata, non volevamo offendere, era una cosa leggera” è il mantra che puntualmente viene salmodiato quando si fa notare che no, si tratta di sessismo. Il copione è sempre lo stesso: “Ma come, non si può scherzare? Certo che le donne (le femministe poi non ne parliamo) sono totalmente prive di senso dell’umorismo, fatevela una risata”, e così via.
Si ignora, volutamente o meno, di capire quanto peso abbiano le immagini sull’immaginario, sulla fantasia e sulla costruzione sociale e collettiva della dignità di un soggetto: se una donna viene descritta come un pezzo di manzo sarà un bel bocconcino, non un essere umano. Ma si sa, è una donna che lo scrive o lo fa notare, quindi per traslato incapace di leggerezza e umorismo. Annamaria Arlotta ne era cosciente, e ha impegnato questi anni nel segnalare, denunciare e aiutare in rete a responsabilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della sottovalutazione della pubblicità sessista.
Ora, mentre la piangiamo in questa fase così dura, l’obiettivo è raccogliere l’enorme eredità di Annamaria Arlotta e continuare il suo lavoro.
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