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Chiesa, parole chiare contro le mafie

Chiesa, parole chiare contro le mafie

- Papa Francesco ha chiamato accanto a sé don Ciotti, che ha incitato gli uomini di Chiesa a non collaborare più con le mafie

Stefania Friggeri Martedi, 27/05/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2014

La lettera a Denise Cosco (“Noi Donne” gennaio c.a.) testimonia una profonda e commossa ammirazione per Lea Garofalo, donna “molto più che coraggiosa” perché ha avuto la forza di compiere una scelta che “richiede eroismo… una scelta definitiva che non consente ripensamenti e che implica rotture traumatiche anche dei rapporti familiari”. E infatti la ferma volontà di sottrarre la figlia alla maledizione del mondo criminale ha condannato Lea a vivere nel terrore, consapevole che il codice mafioso esige la vendetta. Vedi il caso paradossale di Serafina Battaglia che decide infine di farsi collaboratrice di giustizia dopo aver tentato inutilmente di vendicare il figlio, ucciso dopo che lei stessa lo aveva indotto, da uomo d’onore, a vendicare il padre. Se diversi sono i motivi che spingono le donne a collaborare con la giustizia, la maggior parte di loro trova la forza di ribellarsi dopo un trauma, un terremoto emozionale che le sconvolge nel profondo e le rende incapaci di continuare a vivere asservite ad un potere totalizzante, al di sopra anche dell’amore viscerale per i figli o per una persona molto cara. Famoso il caso di Rita Atria, suicida a 18 anni: era obbligata a vivere nascosta, nella solitudine affettiva, maledetta dalla stessa madre la quale, nella tipologia delle donne di mafia, rappresenta lo stereotipo della “fedele compagna” che, avendo interiorizzato la cultura mafiosa, dipinge come esemplare il proprio quadro familiare dove i figli vengono educati cristianamente da una madre “tutta casa e chiesa”. Come Antonietta Brusca che, senza scrupolo alcuno, insieme al marito accoppia le pratiche religiose con l’illegalità e la violenza. Perché l’osservanza dei riti fa di un mafioso un bravo cristiano, un semplice peccatore cui la Chiesa non nega il suo perdono. Il ruolo storico della Chiesa nella gestione del potere, e dunque la sua connivenza con l’ambiente mafioso, è stato indagato da vari studiosi, fra cui Umberto Santino in “Storia del movimento antimafia”: si parte dai Fasci siciliani, il movimento che, con l’appoggio di socialisti e comunisti, ha tentato alla fine del XIX secolo di togliere dalla miseria le plebi contadine. Ma i fasci sono stroncati e il vescovo di Noto propone “caritatevolmente” di rinchiudere in manicomio “i mestatori anarchici e socialisti”. Negli anni seguenti tuttavia vengono promosse molte iniziative di carattere assistenziale (esempio le Casse Rurali di don Sturzo) anche se rimane forte la potenza di vere famiglie “sacerdotali”, come quella di Calogero Vizzini: due vescovi, un arciprete e due preti. Nel primo dopoguerra gli ambienti reazionari e la mafia soffocano ogni tentativo di rinascita del Sud con la strage di Portella della Ginestra, un crimine esecrando definito da Ruffini, cardinale di Palermo, un atto di resistenza “di fronte alla prepotenza, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie anti italiane e anticristiane dei comunisti”. Nel progressivo sgretolamento delle forze progressiste, comprese quelle cattoliche come la voce di don Primo Mazzolari, nel secondo dopoguerra prosegue la collaborazione fra i centri di potere; qualcosa si muove solo negli anni ’80 e ’90 quando l’opinione pubblica viene sconvolta dal sangue delle guerre di mafia e da quello sparso dai “servitori dello Stato”. Anche la Chiesa ha i suoi martiri (don Puglisi e don Diana) ma “le omelie del cardinal Pappalardo e del Papa si sono fermate quando era chiaro che bisognava affrontare il nodo del potere democristiano e il ruolo della Chiesa al suo interno. Le reazioni all’omicidio di don Puglisi sono state sottotono, la Curia e la parrocchia non si sono costituite parte civile… alla Chiesa interessa la conversione dei peccatori e quindi la giustizia terrena non ha molta importanza, una valutazione che rischia di somigliare al non riconoscimento del monopolio statale della forza e della giustizia, teorizzato e praticato dai mafiosi”. Storicamente insomma la Chiesa ha individuato l’Anticristo nel proletariato ribelle, non nel mafioso devoto che viene iniziato a Cosa Nostra con dei riti pseudo religiosi e adora le processioni. Papa Francesco è insorto contro l’idolatria dei mafiosi ed ha chiamato accanto a sé don Ciotti il quale ha incitato gli uomini di Chiesa a non collaborare più con la mafia, anche con il silenzio e la smemoratezza. Dunque quel “convertitevi” lanciato da Papa Francesco, e prima di lui da Woityla, non va riferito solo ai mafiosi ma anche a quella parte del clero che ha ignorato colpevolmente la contraddizione fra compiere un crimine e invocare i santi. Perché la Chiesa non vive nella “Civitas Dei” ma nella città terrena dove l’uomo, il cittadino, compreso il prete, non può mettersi fuori dallo Stato, come nel caso dei preti pedofili. Ma qui, secondo Isaia Sales, sta appunto la consonanza intima fra la Chiesa e la mafia, due mondi i cui membri devono seguire le regole vigenti all’interno, quasi non fossero cittadini, ma solo fedeli o associati al clan mafioso. E infatti la stessa Filippa Inzerillo, autrice di un appello rivolto alle donne di mafia affinché si ribellino, così risponde a chi le chiede se ha perdonato anche Totò Riina: “È solo un figlio (di Dio) che ha sbagliato… dovrebbe pentirsi non dico davanti ai magistrati ma davanti al Signore.”

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