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Chiara Saraceno: il tempo (problemtaco) delle società permanentemente in attività

Chiara Saraceno: il tempo (problemtaco) delle società permanentemente in attività

Al convegno “Prendere tempo. Tempi di vita e di lavoro in Italia e in Europa oggi” Chiara Saraceno interviene sul tema della società sempre in movimento: problemi e opportunità

Venerdi, 24/10/2014 - “Una società permanente attiva?” è la domanda intorno alla quale la sociologa e docente universitaria Chiara Saraceno ha proposto riflessioni, rilevato nuove problematiche e proposto alcune possibili risposte. L’occasione l’ha data il convegno “Prendere tempo. Tempi di vita e di lavoro in Italia e in Europa oggi” che si è tenuto a Bologna il 24 ottobre 2014 (Auditorium Enzo Biagi, Salaborsa) per iniziativa della Fondazione Nilde Iotti e della Commissione Pari Opportunità di Legacoop in collaborazione con Legacoop Emilia Romagna.  In occasione del convegno è esposta a Bologna anche la mostra sui percorsi delle donne nel mondo della cooperazione 'NOIDONNE CooperAttive' realizzata da NOIDONNE in collaborazione con la Commissione Pari Opportunità di Legacoop e già esposta a Roma lo scorso mese di marzo, sempre nell'ambito del progetto sostenuto da Coopfond (visitabile fino al 31 ottobre). “Si dice che stiamo diventando una società permanentemente attiva - ha osservato Saraceno -. Ma domandiamoci cosa significa veramente questa definizione. Forse prima non eravamo attivi? O forse siamo di fronte ad una riduzione di ciò che è riconosciuto come attività ad una sola, massimo due”.



Di solito quando si parla di tempo si intende il tempo lavorativo o quello direttamente correlato. Per esempio il viaggio da casa al posto di lavoro. Insomma l’associazione di idee è tempo/lavoro…

Questo perché il lavoro remunerato sembra diventato l'unica attività meritevole, cui vanno subordinate tutte le altre, a scapito, quindi, del tempo (anche se non della necessità) del lavoro non remunerato.



Pensa alle attività di volontariato?

Certo, ma anche alle relazioni. Al tempo per sé. È percepito come ‘attivo’ solo chi ha un lavoro remunerato, o lo cerca. Attenzione non è solo un concetto statistico, ma morale.



Quindi lei osserva che attorno all’equivalenza ‘attivo/lavoro’ si va costruendo quasi una categoria etica?

Se alla categoria ‘attivo’ diamo un accezione positiva solo nel campo di una qualche attività lavorativa, in qualche modo tutti coloro che non sono occupati sono considerati come socialmente e moralmente a rischio. Si pensi al concetto di "attivazione" riferito ai poveri, o anche a quello di "invecchiamento attivo", riferito quasi esclusivamente al prolungamento della vita lavorativa.



Questo che conseguenze ha sulla percezione dei lavori non retribuiti, come ad esempio il lavoro di cura in famiglia?

Il lavoro non pagato, specie se svolto entro la famiglia, non è considerato "attività", nel migliore dei casi, un vincolo all'attività "vera". D'altra parte, lo stesso concetto e pratica di conciliazione sembrano ridursi alla conciliazione tra lavoro famigliare e lavoro remunerato. Come se non ci fossero altri tempi/attività cui sarebbe opportuno dedicarsi: il tempo per sé, per le relazioni, per la socialità, per la politica, per il gioco. Persino per l'ozio, avrebbero detto gli antichi, che lo consideravano il tempo della riflessione e della socialità, un privilegio che avevano coloro che non erano costretti alla quotidianità del lavoro produttivo. A proposito di gioco, questa riduzione dell'attività al lavoro tracima anche nel modo in cui organizziamo il tempo dei bambini, che spesso hanno giornate lunghissime, tutte piene di attività organizzate a fini, si direbbe, di costruzione curriculare, dove il tempo per sé, per il gioco e l'auto-organizzazione è, se non spreco, solo una pausa necessaria tra lavori diversi.



Quali impatti e conseguenze vede in questa sorta di torsione che va affermandosi del concetto di uso del tempo?

Non nego, naturalmente, l'importanza del lavoro remunerato. Ciò che mi preoccupa è la pretesa della sua pervasività, a livello pratico, ma anche simbolico. La centralità del tempo di lavoro remunerato, la sua dilatazione e rottura dei confini ha conseguenze diverse, che riguardano anche gruppi sociali differenti. Nelle professioni e posizioni alte, la richiesta di una disponibilità illimitata sembra diventata una parte normale del profilo professionale e delle caratteristiche necessarie per fare carriera. Questo ha anche conseguenze negative sulla divisione del lavoro all'interno della coppia, specie in presenza di figli, proprio tra i ceti e gruppi sociali che erano stati i maggiori innovatori in questo campo. Sono infatti gli uomini a cedere di più alle richieste di investimento che provengono dal lavoro, lasciando alle donne di preoccuparsi del lavoro di cura e delle relazioni non lavorative. Ai livelli più bassi, la scarsità della domanda di lavoro e la percezione di vulnerabilità nel mantenere una occupazione fa sì che molte persone, pur di lavorare, siano disponibili a ritmi di vita anche faticosi. Il lavoro notturno, il sabato, la domenica, non è più appannaggio di poche professioni (trasporti, ospedali…), ma sta diventando la prassi in molti settori, a partire dal commercio, facendo emergere anche conflitti inediti tra categorie di lavoratori, quando si fronteggiano rispettivamente come cittadini/consumatori e lavoratori. Infine, la disoccupazione, la precarietà dei contratti, non solo trasforma la ricerca del lavoro remunerato in una attività assorbente, che consuma tempo ed energie. Dilata le attese e chiude gli orizzonti, riducendo le prospettive temporali.



Quindi secondo lei questa idea e gestione della risorsa tempo è discriminante per le donne, ma anche per alcune attività e categorie sociali?

Crescono nuove disuguaglianze in relazione all'uso del tempo, in particolare al tempo di lavoro, mentre rimangono le "vecchie" disuguaglianze (di genere, ma anche di classe sociale) nella distribuzione del lavoro non remunerato. La società permanentemente attiva ci fa spavento perché riduce l'attività alla prestazione lavorativa per il mercato, cui vengono assimilate anche le altre attività. Il caso di Apple e Facebook che offrono alle loro impiegate giovani in carriera la possibilità di crioconservare i propri ovuli, rimandando la maternità per poter investire in modo esclusivo sul lavoro è un esempio di questa visione monodimensionale della attività. È lo strumentalismo e la monodimensionalità dell'attività che preoccupa.



Pensa che la tecnologia ci salverà?

L'invasivitá dei tempi di lavoro e del lavoro remunerato è, almeno in alcune professioni, facilitata dalle nuove tecnologie: le mail ci seguono ovunque e possiamo lavorare anche quando siamo in ferie o in cassa integrazione. Tuttavia non si può dare un giudizio univoco di questi sviluppi. Accanto al venire meno dei confini tra spazi/tempi di vita, non va sottovalutata la possibilità di risparmiare tempo (ad esempio di viaggio), oltre che di poter mantenere relazioni "faccia a faccia" a distanza anche a livello quotidiano



E c’è un rovescio anche di questa medaglia?

A fronte di questi cambiamenti, aumentano sia le esigenze di mantenere confini e distinzioni, sia, all'opposto, di ridurli, attraversarli, ridefinirli. Anche se i tempi sociali continuano ad essere in larga misura standardizzati, aumenta anche il desiderio, e in diversi casi anche le capacità, di riorganizzazioni personalizzate dei tempi/spazi di vita. Se si lavora anche da casa, si possono anche sbrigare pratiche burocratiche, fare sport, gestire il tempo libero dei figli dal luogo di lavoro

In questa prospettiva, il welfare aziendale non è (può non essere solo) solo l'offerta di servizi tradizionali, ma anche una strumentazione più o meno complessa di flessibilizzazione dei tempi/spazi e una redistribuzione delle attività. Tornando all'esempio di Apple e di Facebook, ci si chiede come mai imprese tecnologicamente innovative non riescano a inventarsi un sistema di conciliazione tra investimento professionale e investimento della famiglia diverso da quello antichissimo dell'aut aut.



A cura di Tiziana Bartolini

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