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Chiara Moimas.  Il sé e l’altrove

Chiara Moimas. Il sé e l’altrove

Poesia - Questa scrittura è dotata di una voracità primitiva, capace di pescare nell’oscurità dell’istinto e dell’inconscio

Benassi Luca Domenica, 24/11/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2013

C’è una famosissima poesia della poetessa polacca Wisława Szymborkska dall’eloquente titolo “scrivere il curriculum”, nella quale la premio Nobel mette in relazione l’asettica formalità necessaria del curriculum con la propensione a rompere gli schemi e le regole della scrittura poetica, che tende a rappresentare un io macerato nel sentimento, nell’emozione, nel dubbio di un’inquieta appartenenza al genere umano. Entrambi, poesia e curriculum, rispondono ad un principio di necessità (“Che cosa è necessario?/ È necessario scrivere una domanda/ e alla domanda allegare il curriculum”), entrambi sono destinati all’inutilità e all’oblio (Cosa si sente?/ Il fragore delle macchine che triturano la carta.”). Anche Chiara Moimas sembra muoversi all’interno di questa contrapposizione fra oblio e necessità, in un’opera breve ma densissima, con un titolo che ricorda direttamente la polacca: “curriculum vitae” (edizioni Joker, 2012). Allo stesso modo, la struttura del testo sembra caratterizzata da un apparente rigore formale, a partire dall’articolazione in sezioni che sembra scandire la precisione delle parti in cui si è soliti dividere un curriculum: “curriculi”, “nome”, “dove”, “quando”, “formazione”, “esperienze”, “epilogo”. Questo formalismo è, tuttavia, solo apparente, essendo dotata questa scrittura di una voracità ctonia, fecondante e primitiva, capace di pescare nell’oscurità dell’istinto e della notte, attraverso metafore visionarie ed irreali. Correttamente Giorgio Linguaglossa, nella nota introduttiva che correda il volume, mette in relazione questa poesia con quel filone femminile, antilirico e minoritario, che ha segnato attraverso la discesa nell’abisso dell’inconscio lo stigma di una modernità implosa: Amelia Rosselli, Helle Busacca, Maria Marchesi. Scrive il critico romano: “il modo di raccontare di Chiara Moimas […] non lascia dietro di sé alcun filo di Arianna mediante il quale ripercorrere a ritroso la strada percorsa. È una poesia che si è dimenticata della modernità, forse perché la poesia non ha alcun bisogno di essere, o di apparire moderna, non ha alcun bisogno di facilitare al lettore il compito della lettura. È una poesia che parte dall’oblio del Moderno. E da qui si dirige, a vele spiegate, verso l’ignoto. Con la maschera della propria impenetrabilità. È il suo modo di offrirsi al lettore.” È questa una scrittura magmatica, dalle movenze innodiche e salmodianti, soggetta ad una continua intensificazione, ad una progressione del linguaggio che si fa prezioso, liturgico, e che non sembra lasciare spazi, pause, appigli. I versi sono brevi, composti da una parola o un sintagma, ma i testi sono lunghi, quasi un poema che ci racconta di un io celato nei desideri e nella disperazione.







Siete inciampati

sul germoglio

di una mina vagante

presidiando l’incerto

confine dell’occidente.

Lampi siete stati

nella notte perenne

bagliori di sangue

lapilli di dolore.

Il nostro pianto fugace

non ha sopito

l’impeto del rogo.











Un paio di guanti

a difesa del freddo

mattino.

L’alito si fa nebulosa

di rarefatta solitudine

e convulsamente

bramano connessioni

le smembrate parole

che tra viscidi sentieri

di lucido asfalto

rimbalzano dentro

la selva d’acciaio.

Ispide fronde e incolte

si aggrovigliano

per deviare la luce

il transitare celano

di nubi fuggiasche

e riparo ti sono

al superfluo

piacere del vento

al ristoro

dell’inutile pioggia.



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