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Chi è una buona madre?

Chi è una buona madre?

Società/ Madri assassine - Un’altra delle riflessioni che noidonne sta pubblicando sul tema della violenza delle madri, quali le cause? Violenza subita nell’infanzia che poi riscappa fuori inaspettata, senso di inadeguatezza, mancanza di supporti soc

Giuliana Dal Pozzo Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2005

Uccidere un figlio. Un bambino piccolo che non sa difendersi e non immagina che la madre possa fargli del male. Per un delitto tanto contro natura non esiste nemmeno il nome: si può essere matricidi, parricidi, fratricidi, uxoricidi e perfino regicidi, tirannicidi, deicidi ma si cercherebbe invano nel vocabolario un termine che indichi il colpevole dell’uccisione di un figlio.
L’unica parola che si può usare per approssimazione a indicare tale crimine è infanticidio, che però richiama un generico delitto di un bambino, e non l’assassinio di un figlio.
Una simile lacuna linguistica ha una corrispondenza nell’altrettanto significativa mancanza del termine che indichi un genitore che, per qualche incidente o malattia, ha perso un figlio. Accanto a orfano e vedovo infatti non esiste niente che definisca chi è stato colpito dalla più grande tragedia umana, quasi a negare l’orrore: il figlio che non sopravvive al padre e alla madre.
Ancora ci si sta interrogando con sgomento se sia stata la madre a infierire con un oggetto sconosciuto contro il piccolo Samuele a Cogne, ed ecco alla ribalta un’altra madre, Maria Prezioso, detta Mary, che in un borgo vicino a Lecco sopprime Mirko, il suo primogenito di cinque mesi. La differenza fra i due gesti e le due donne non sta tanto nel modo in cui si sarebbe attuato il crimine, ma nella loro reazione. Nega con ostinazione ogni colpevolezza la prima, la seconda invece, dopo un primo momento in cui ha cercato di confondere le prove accusando uno sconosciuto rapinatore, crolla e confessa.
Il perché di un gesto tanto disumano da parte di una donna che aveva desiderato e pareva amare il suo bambino, non è stato lasciato alle analisi di neuropsichiatri, criminologi, psicologi e giudici, ma è diventato motivo di discussione dell’opinione pubblica.
Depressione post-partum, il sogno di un futuro in televisione da riporre nel cassetto per via dei nuovi impegni materni, la fatica di occuparsi contemporaneamente della casa, del figlio e della panetteria in cui lavorava come commessa: questi i maggiori imputati del folle gesto di Mary. Nell’ansiosa ricerca di colpe individuali e collettive, sono stati di volta in volta chiamati alla ribalta anche la sordità di parenti e amici davanti a segnali premonitori del dramma o il falso pudore di Mary nell’esprimere il suo disagio e nel chiedere aiuto.
Stranamente si è dato poco peso all’unica frase estremamente chiarificatrice pronunciata dall’imputata nel carcere di Castiglione delle Stiviere, quando la coscienza del delitto commesso è riemersa: “Avevo paura di non saper essere una buona madre”.
Che cosa vuol dire essere una buona madre? E soprattutto essere una buona madre oggi? Non è la prima volta nella storia che una madre compie un atto di sangue. Molte sono state le motivazioni: per vendetta verso il marito, come nel gesto disperato di Medea, per gelosia, per pietà verso una creatura malata o malformata, mai però per paura di non essere in grado di assolvere al compito di madre.
In altri tempi, quando l’infanzia aveva pochi diritti e tanti doveri, e i bambini vivevano una stagione limitata fatta di poche gioie, essere una buona madre significava nutrirli e dargli qualche insegnamento di base perché se la cavassero da soli al più presto. La vita sociale, l’inserimento nella collettività, con tutte le sue leggi, sarebbe stato compito del padre.
Non è quello che capita oggi, le responsabilità materne si estendono a tutta la vita del figlio, dipenderà da lei, dalle sue prime cure, dai valori che saprà trasmettergli se il bambino diventerà un individuo sereno e armoniosamente inserito nella società. E dunque sarà soprattutto a lei che saranno imputati gli eventuali insuccessi del figlio. Un fardello troppo pesante da portare, una meta a volte difficile da raggiungere in un mondo che alle madri regala molta retorica ma dà poco aiuto concreto. E’ come se la donna, una volta che diventa madre, non possa utilizzare le esperienze di chi l’ha preceduta, troppo lontane dalla realtà in cui vive. E’ come se a una saltatrice fosse stata alzata improvvisamente l’asticella di cui conosceva la misura e le riesca difficile superare il mutato ostacolo che la porti al successo della prova.
(1 luglio 2005)

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