Martedi, 16/01/2024 - Pochi giorni fa, il 10 gennaio, Paola Cortellesi è ospite all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università LUISS. Subito dopo appaiono nei giornali online – cioè in quegli strumenti che dovrebbero fornire alla cittadinanza le conoscenze per partecipare consapevolmente alla vita sociale – sensazionali titoli e brevi pseudo-articoli che addebitano all’attrice-regista-sceneggiatrice l’ignobile responsabilità di aver denunciato il sessismo nelle fiabe, in particolare in quelle di Cenerentola e Biancaneve. A leggere quegli articoli sembra che Cortellesi abbia parlato solo di quello, per giunta in un contesto che con le favole sembra avere poco a che fare.
Per qualche giorno un numero incalcolabile di pseudo-giornalisti e cittadini comuni esprime online e ontv la propria disinformata opinione su quanto sia ingiusto mettere in discussione le favole, così come ogni altra rassicurante certezza delle nostre altrimenti tristi vite. Poi, come nel colpo di scena di una favola, l’università LUISS pubblica il video integrale dei 18 minuti di intervento di Paola Cortellesi, rendendo così noto – almeno a chi ha il cervello ancora in grado di ascoltare un discorso di 18 minuti senza interromperlo per guardare un video idiota su tiktok o per controllare quante visualizzazioni ha raccolto la sua fotografia su instagram – che in quel discorso c’era molto più delle favole. E che proprio a causa della paura di quel più, la categoria che impropriamente ancora si definisce giornalistica pur senza averne più da tempo le credenziali ha deciso di lanciare contro l’autrice di quel discorso l’anatema che sicuramente avrebbe provocato la rivolta della popolazione italiana… e ovviamente tanti clic sul sito del giornale finanziato dalla pubblicità.
Questo è accaduto nei confronti di Paola Cortellesi e del suo emozionante, profondo, intelligente, ispirante, discorso alle studentesse e agli studenti della LUISS: chi ha il potere di raccontare il nostro mondo ha scelto di oscurare quel che di marcio di questo mondo Cortellesi denuncia e ha denunciato col suo film dietro lo spauracchio del “ci vogliono togliere le favole”.
Guardatelo il video, ascoltatelo bene, non starò qui a stenografarlo (eccolo trascritto, ndr). Ma alcune cose questa storia me le ha fatte uscire a forza dalla penna, anzi dalla tastiera.
Mi aspettavo tanto da Paola Cortellesi, perché nel tempo ho apprezzato molto di quello che ha fatto nella sua professione, perché ricordo il suo discorso ai David di Donatello nel 2018, ma pur aspettandomi tanto non avevo immaginato che il suo film potesse essere così tanto straordinario. E non avevo immaginato che il suo film così straordinario diventasse il più grande successo commerciale del cinema italiano di quest’anno e non solo. Un film che lei stessa descrive all’inizio del suo discorso alla LUISS: «uno spericolato film d’epoca, in bianco e nero che, in soldoni, tratta di prevaricazione e violenza di genere. Una mattonata, sulla carta». Un prodotto invendibile, sulla carta, perché in bianco e nero e perché sulla violenza maschile domestica. Eppure è accaduto qualcosa, qualcosa che lei chiama empatia e immedesimazione ma che secondo me va oltre, che inspiegabilmente ha reso quel film invendibile un successo. Uno studio sociologico dovrà approfondire le ragioni di un avvenimento così apparentemente inspiegabile, ma per oggi ci accontentiamo del dato di fatto che ciò è accaduto.
Ebbene, quando accade qualcosa di così straordinario e inatteso, qualcosa che, come si dice, “smuove le coscienze” ci si aspetterebbero grandi cambiamenti in sua conseguenza. E invece no. Come la storia umana ci ha già insegnato altre volte, soprattutto in tema di diritti, dopo una grande onda che appare capace di cambiare le cose bisogna subito rimettere le cose al loro posto, lì dove sono sempre state.
E così accade che la commissione di selezione dell’ANICA invia agli Oscar – il più prestigioso premio per la cinematografia mondiale – non il film di quella donna così straordinaria che racconta la vita di donne ordinariamente straordinarie e che si è rivelato un inarrivabile successo, ma il film di un uomo con protagonisti uomini. Per la cronaca, tra i dodici film selezionati come possibili candidati agli Oscar c’erano solo tre registe donne, ed è un numero insolitamente alto.
E così accade che si rende oggetto di pubblica discussione la normalmente noiosa e irrilevante cerimonia di inaugurazione di un anno accademico, perché quella straordinaria donna si permette nel suo discorso di dire, tra tante altre cose, un’ovvietà - le favole che ci hanno raccontate da bambine sono sessiste -, e si utilizza quell’ovvietà per attaccare la credibilità di una donna che col suo successo ha superato tanti uomini, e che, come se non bastasse, col suo successo ha denunciato un problema che pur riguardandoci tutte e tutti è più comodo conservare in sordina, riesumandolo solo per pavoneggiarsi come paladini delle donne l’8 marzo e il 25 novembre.
Curiosamente accade anche che io abbia trascorso l'anno passato a scrivere un libro proprio sulle favole e precisamente sul cambiamento dei personaggi femminili nei lungometraggi Disney durante il suo secolo appena celebrato di vita. Non starò qui a trascrivervi neanche quel libro ovviamente, ma capirete che è un tema su cui ho letto, visto, e riflettuto parecchio.
Nel suo discorso alla LUISS Paola Cortellesi innanzitutto dichiara di essere stata invitata in quella sede per raccontare la storia del suo film, «perché le storie sono uno stimolo di riflessione», e quindi racconta il suo film, la storia di Delia «moglie e madre, questi sono i ruoli che la definiscono» e il suo riscatto, il suo e quello di tante donne che hanno rivendicato il diritto di contare, di avere la propria dimensione indipendentemente da un uomo, al contrario di Cenerentola e Biancaneve che solo nel principe vedevano il loro lieto fine. Cortellesi evidenzia che quella di Delia è la nostra storia, la nostra storia di donne «che hanno accettato una vita di prevaricazioni perché così era stabilito, senza porsi domande. Questo è stato, questo a volte è ancora». Il fatto che è ancora è dimostrato, continua Cortellesi, dal numero di uccisioni di donne «per il solo fatto di essere donne» commesse dai loro presunti principi azzurri, e dal fatto che quelle uccisioni siano l’esito di dinamiche sempre simili basate sul possesso e sulla prevaricazione fisica, psicologica ed economica. «Avevo intenzione di fare un film contemporaneo, ambientato in un passato non molto remoto, e seguire la crescita di un germoglio spontaneo di consapevolezza in una donna che non sa nulla», perché è solo la consapevolezza che la vita può essere diversa a poterci spingere a cambiarla: la conoscenza è libertà. «Io ho trovato il riscatto di Delia, il finale di questo racconto, leggendo con mia figlia un libro per bambine sulla storia dei diritti delle donne», Delia «si salva con la consapevolezza e un ritrovato rispetto di sé stessa». Ma perché le giovani generazioni dovrebbero apprezzare questo film? Secondo Paola Cortellesi perché questa storia, così apparentemente lontana dal nostro tempo, fa crescere in noi «un’urgenza di riscatto», perché tutte noi abbiamo percepito quella violenza «almeno una volta nelle parole, negli atteggiamenti, nei commenti sgradevoli, a scuola, a casa, sul lavoro. Vive e prolifera nelle piccole cose, ci inganna piano piano. È così presente da risultare invisibile, talmente normale che la diamo per scontata e ci convince che così deve essere, come niente fosse».
Ecco il punto quindi. In mezzo a tutto il discorso di Paola Cortellesi, quella categoria che impropriamente ancora si definisce giornalistica ha scelto di buttare tra le dita affamate di visibilità e di odio del pubblico digitale l’aspetto che sapeva avrebbe dato voce all’odio, all’ignoranza e al patriarcato in cui viviamo. Perché sì, viviamo ancora in un mondo patriarcale, ce lo ha detto nientemeno che Barbie. E una parte della nostra cultura patriarcale, che genera quella violenza che Delia e tante altre donne hanno vissuto e vivono, proviene proprio dalle favole e, visto il successo planetario che hanno avuto, da quelle prime favole Disney che rappresentavano le donne come belle, ingenue, sottomesse, dedite ai lavori di casa cantando e attendendo uno sconosciuto principe che le avrebbe salvate.
Ciò su cui ho riflettuto in quel mio libro (inedito) di cui vi dicevo prima è però il colossale cambiamento che proprio la Disney ha operato su sé stessa in questo secolo, un cambiamento dichiarato e ancora in atto. Se infatti sbarcasse oggi un alieno sulla Terra e gli si proponesse in sequenza la visione di “Cenerentola” e di “Frozen” sono certa che mai direbbe che quei film provengono dalla stessa casa di produzione, perché sono l’antitesi l’uno dell’altro. Il cambiamento nelle sceneggiature Disney è consapevole e apertamente dichiarato nella scena di “Ralph Spaccainternet” in cui l’anticonformista Vanellope incontra le principesse che ironizzano sulle loro stesse iconiche caratteristiche. È un cambiamento i cui semi già si intravedevano negli anni ’90 - pensate a Pocahontas e Mulan, ma anche a Jasmine quando davanti a tre uomini dice «Io non sono un trofeo da vincere!» -, un cambiamento che poi è esploso con “Frozen” diventando un punto di non ritorno. Come racconto nel mio libro, la prima volta che vidi la scena in cui il principe Hans rivela il suo inganno ad Anna mi spaventai moltissimo, più che se avessi visto un horror, e io l’ho vista da adulta, non posso immaginare quanto mi avrebbe colpita da bambina! Il principe, l’amore, “l’uomo giusto” si rivela un perfido ingannatore, questo a noi bambine nessuno l’aveva mai raccontato. Ed è proprio per questa ignoranza che non riusciamo a vedere la violenza in un uomo violento, la bugia in un uomo bugiardo, il male in un uomo malvagio, perché ci hanno convinte che il nostro amore avrebbe trasformato la bestia in un uomo amorevole, che l’amore vince sempre e vince tutto, che l’unione con un uomo ci avrebbe rese felici e contente per sempre. Non è così, ce ne dobbiamo convincere, e ce lo spiega Elsa così come oggi ce lo spiega Delia: la nostra felicità sta in noi, nel realizzare noi stesse nel modo che ci rispecchia di più.
Quindi ecco, per quanto possa apparire paradossale al nostro alieno visitatore, proprio la Disney ci racconta che il mondo può cambiare. Ma ci dimostra che per cambiare bisogna capire che c’è un problema, bisogna studiare molto a fondo quel problema, e bisogna agire per cambiarlo. Il cambiamento è immensamente difficile, perché riguarda pensieri che abbiamo talmente interiorizzato da averli resi invisibili e scontati, l’abitudine ci impedisce di immaginare che si possa vivere in modo diverso. Ma se si desidera per le bambine e i bambini un mondo migliore, libero, giusto, in pace, il cambiamento è necessario. Come dice Paola Cortellesi alla fine del suo discorso, «l’indifferenza è una scelta, ed è quella sbagliata. Siate sempre i protagonisti del vostro progetto e mai le comparse del progetto di qualcun altro».
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