Società e violenza - Che cosa passava per la testa di Maria Patrizio, detta Mary, mentre affogava il suo bambino di cinque mesi nella vaschetta da bagno?
Giuliana Dal Pozzo Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2005
Che cosa passava per la testa di Maria Patrizio, detta Mary, abitante di un borgo vicino Lecco, mentre affogava il suo bambino di cinque mesi nella vaschetta da bagno? E dopo, quando si legava e si immobilizzava con il nastro adesivo e gettava via la chiave della stanza da sotto la porta?
Oggi sono in molti a chiederselo. In prima fila i neuropsichiatri, gli psicologi, i criminologi ai quali ormai si chiede una spiegazione per tutto quello che succede al mondo. E’stata di volta in volta chiamata in causa l’ambizione di Mary di proseguire nella carriera di figurante televisiva senza impacci di neonati fra i piedi, la sua difficoltà di conciliare questo ruolo che la gratificava agli occhi dei concittadini con il lavoro di commessa di panetteria e con la recente maternità. Per arrivare al vero responsabile della tragedia, lo stress post-partum, fenomeno che sembra colpire in maniera più o meno grave quasi tutte le donne ed è tanto misterioso quanto fatale perché ha a che fare con il riequilibrio ormonale, quando si sa che con gli ormoni non si scherza. Vere o false queste ipotesi, sono comunque tardive sia per la vita di un bambino innocente, sia per il futuro di un giovane donna che, qualunque sia il verdetto del tribunale e l’esito delle cure psichiatriche, non potrà sottrarsi, prima o poi, alla condanna del suo tribunale interno.
Anche questa volta, come per altri delitti particolarmente raccapriccianti che offendono non solo le persone, ma valori profondi come la maternità, la protezione del più debole e del più indifeso, l’amicizia e la solidarietà umana, si è ripetuto il triste rituale della deresponsabilizzazione collettiva di chi non ha riconosciuto in tempo i sintomi del pericolo. Prima una difesa a spada tratta della donna ancora considerata vittima di una rapina e non un’infanticida, poi un pesante silenzio e infine la paura che il buon nome del paese venisse sporcato dalla tragedia. Con accenni di rivelazione da parte di qualcuno: la bella Mary si lamentava che il suo corpo si fosse appesantito e sciupato con la gravidanza e con l’allattamento; la cura del figlio non le permetteva di realizzare i suoi sogni televisivi. A volte confessava di odiare il suo bambino, un medico le aveva prescritto delle pillole.
Messaggi che nessuno, nemmeno il marito e i genitori, aveva saputo decodificare. Forse perché erano deboli: Mary voleva essere ammirata, non compatita e non aveva abbastanza fiducia nell’aiuto di chi la circondava. Forse per indifferenza o paura di chi notava qualcosa di strano.
In un mondo fatto di segnali per ogni genere di comunicazione, il linguaggio del disagio non è compreso. Bisogna che impariamo al più presto questa lingua straniera, se non vogliamo trovarci davanti ad altre tragedie indecifrabili.
Lascia un Commento