Le visionarie riflessioni del '74, della femminista Juliet Mitchell, spiegano le correlazioni fra tabù, sessualità e patriarcato, indicando le vie della militanza di oggi e domani.
Mercoledi, 07/01/2015 - I principali filoni femministi occidentali che si sono individuati e rinforzati in decenni di militanza, dagli anni Settanta ad oggi, ci hanno permesso di vedere con estrema chiarezza l'impronta patriarcale, le fondamenta maschiliste su cui è edificata la nostra civiltà.
Questa lucidità intellettuale, anche se ha condotto a progressive messe in evidenza e a delle piccole-grandi conquiste, continue e indubitabili, sembra non avere ancora del tutto abbattuto i mastodontici muri che dividono i due generi.
Le donne restano “il secondo sesso”, come diceva la De Beauvoir: un genere inferiorizzato e alternativo.
Perché? Contro cosa continuiamo, noi donne, a dare sorde testate? Fin dove estende i suoi tentacoli la piovra del “patriarcato”?
Una risposta a queste domande può venirci dalla rilettura di un saggio del 1974 di Juliet Mitchell, femminista vivente: “Psicoanalisi e femminismo”.
La Mitchell, socialista di orientamento marxista, sviluppava il suo pensiero utilizzando in positivo alcune spiegazioni freudiane. Per la Mitchell era importante fare i conti con la psicoanalisi, perché questa disciplina poteva finalmente spiegare certi meccanismi e dinamiche delle masse fino a poco prima del tutto misteriosi.
Freud, infatti, negli scritti speculativi sulle origini della cultura umana aveva dimostrato che nell'inconscio si potevano ritrovare tutte le “idee” elaborate durante la storia esperienziale dell'umanità intera.
Mitchell, quindi, scriveva: «la storia non può ripartire da zero con ogni individuo, ecco perché questa viene acquisita inconsciamente. Capire le leggi dell'inconscio significa dunque cominciare a capire come funziona l'ideologia, come noi acquisiamo e viviamo le idee e le leggi entro le quali “deve” inquadrarsi la nostra esistenza. Un aspetto primario di tali leggi è che dobbiamo vivere secondo la nostra identità sessuata, secondo la nostra “mascolinità” o “femminilità” sempre imperfetta».
Bene, ma in che senso la nostra identità sessuata è “sempre imperfetta”?
Questa affermazione è incomprensibile senza premettere che, sia la Mitchell, sia Freud prima di lei, avevano ormai scoperto che l'individuo è fatto di una psiche «bisessuale» che vive dentro un corpo invece biologicamente determinato. In questo senso, la psiche individuale è “costretta” ad avere “un solo sesso”, quello biologico e socialmente riconosciuto.
Si capisce, allora, come ogni sforzo individuale o sociale teso ad assolutizzare il maschile o il femminile che è in noi sia, per la nostra psiche, profondamente insano.
C'è di più. La Mitchell osservava anche che nella nostra civiltà «entrambi i sessi rifiutano le implicazioni della femminilità, che è una condizione “rimossa” a cui si può accedere solo secondariamente, e solo in una forma distorta. E' infatti perché rimossa, che la femminilità è tanto difficile da comprendere. Essa torna però a manifestarsi attraverso dei sintomi come l'isteria».
Insomma, in parole povere, la nostra civiltà è malata perché il femminile della nostra società è stato rimosso in ere ancestrali. Questa rimozione del femminile, inoltre, non pesa solo sulle vite delle donne, ma tantopiù grava sulle esistenze degli uomini e sul loro “femminile interno”.
Le osservazioni della Mitchell sono davvero lungimiranti e rivelatorie in questa complessa attualità in cui gli stereotipi dell'”uomo macho” e della “donna velina” risultano affatto insufficienti.
Di qui, per dirla con la Mitchell, «è necessario condurre una lotta ben precisa contro il patriarcato, una vera rivoluzione culturale in cui è essenziale che anche le singole battaglie abbiano la loro autonomia. Così, la donna, inserita nel movimento femminista rivoluzionario potrà essere l'elemento di punta per l'attuazione di un cambiamento ideologico a carattere generale».
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