Cesira: un caso di maltrattamento ottocentesco ma sembra dei nostri giorni
Purtroppo ancora oggi succede che la donna sia sollecitata dai famigliari a ritirare la denuncia per maltrattamenti per il bene della famiglia, soprattutto nei paesi del Sud
Domenica, 22/07/2018 - Siamo ancora nel Medioevo se i pronunciamenti di numerose sentenze civili
traboccano di casi di maltrattamenti di genere gravissimi, ma sarebbe ancora più grave se si risolvessero con semplici inviti ai mariti alla moderazione e alle mogli alla pazienza. Alcuni studi condotti sulla condizione della donna nel Medioevo riscontrano casi di vere e proprie sevizie nei confronti delle donne, risolti con l’invito a tornare a casa e prestare ubbidienza al coniuge. Purtroppo ancora oggi succede che la donna sia sollecitata dai famigliari a ritirare la denuncia per maltrattamenti per il bene della famiglia, soprattutto nei paesi del Sud, dove è difficile da sradicare il concetto che la donna abbia la capacità di sopportare. Nell’epoca del Latifondo sempre è comunque riconosciuta la legittimità, se non il dovere, della correzione da parte del marito di veri o presunti atteggiamenti di disobbedienza che, se tollerati, avrebbero potuto minare l’ordine sociale fondato sulla famiglia patriarcale e sulla supremazia del marito che esercitava un’autorità pressoché assoluta. La verberatio (percossa con le verghe) era il castigo tipico inflitto a mogli e figli. La congiunzione sessuale diventava il perno centrale del matrimonio e il rifiuto (della moglie) doveva essere considerato un peccato grave, una sottrazione agli obblighi sottoscritti con il contratto matrimoniale. Era prevista anche la reclusione, su denuncia del marito, in carcere oppure la si mandava al sanatorio, con la falsa accusa che fosse pazza; talvolta veniva indotta a pubblica fustigazione come documentano molti casi nel XV secolo.
Ma per non parlare solo di Medioevo, come non ricordare Rina Faccio, che, con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, pubblicava nel 1906 il romanzo autobiografico Una donna, nel quale descriveva la condizione di muta sudditanza al marito delle donne marchigiane della fine dell’Ottocento; fu una delle prime donne a denunciare un reato nuovo, quello che si trova nelle nostre case, non al di fuori. Il reato di violenza domestica. In molti codici penali otto-novecenteschi cominciò ad apparire un reato specifico: i maltrattamenti domestici, riconoscimento che segnò l’avvio di quel percorso normativo approdato fra stalking e mobbing alla fine del Novecento. Era un reato solitamente su querela di parte con il quale si mirava a fornire di una specifica tutela i membri deboli della Famiglia. Qui si inserisce la storia di Cesira di cui abbiamo parlato nei precedenti articoli sulla violenza di genere, e il suo iter di maltrattamenti che sfociano nella uccisione della ragazza. Il matrimonio era stato celebrato il 3 novembre 1883, probabilmente dietro pesanti pressioni dello stesso marito, il Manara che pareva la minacciasse nel caso lo avesse rifiutato. Manara era noto in città per le sue maniere violente, che non mancò di manifestare nei rapporti con la moglie, picchiandola fino a farle interrompere due gravidanze, Cesira aveva al contrario un carattere mite ed era amata ed apprezzata dalle amiche, dalle compagne di lavoro e dagli stessi proprietari della filanda che non avevano mai avuto modo di lamentarsene. Tante Cesire come quelle che incontriamo oggi agli sportelli antiviolenza, maltrattate e umiliate. Colpite nel corpo e mortificate nell’anima. Proprio di mortificazione si tratta, parola presa nella sua pregnanza etimologica. Mortificare qualcuno significa: “lasciarlo come morto”. Lui si sente onnipotente, sono forte perché so dare la morte. E sono ancora più forte perché lei, la mia vittima, non parla, non denuncia, sopporta la violenza. Questo mi permette di trovare soluzioni semplici e mi fa risparmiare tempo. Chi guarda casi di violenza dal di fuori e sta zitto, è coinvolto, non è da assolvere. Invitiamo a denunciare anche attraverso le parole del grande De Andrè: “per quanto voi vi crediate assolti siete lo stesso coinvolti”
Elena Manigrasso
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