Intervista all'ottantaseienne poeta-medico padovano residente da vari anni a Vicenza, tradotto in venti lingue. Tra gli ultimi libri della sua ciclopica produzione ricordiamo: Scribendi licentia, Sinopsìe, Il poeta pallido, editi da Marsilio
Mi accoglie cordialmente nel soggiorno del suo appartamento situato al terzo piano di un fabbricato che beneficia della tranquillità di una via sottratta al traffico vicentino. Ci accomodiamo nelle poltrone poste davanti a una delle tante scaffalature rigurgitanti di libri che arredano e vivificano l’abitazione di Cesare Ruffato, il poeta-medico padovano in cui il nobile “mestiere” ha tracciato indelebili emblemi. Da una polo color pervinca chiaro che si ripete nelle sfumature dei capelli esce un collo scarno a sostenere un viso di austera profondità rischiarato dal brillio di due vivacissimi occhi scuri. Anche il corpo è asciutto e il portamento ancora aristocratico: “Il poeta magro” mi viene da pensare combinando il titolo della silloge poetica di Ruffato “Il poeta pallido” con quello del romanzo di Gian Antonio Stella “Il maestro magro”.
So che il 3 marzo Cesare Ruffato, uno dei maggiori poeti italiani contemporanei conosciuto in Europa e nel mondo (le traduzioni dei suoi scritti vanno dal castellano al croato, dal tedesco allo svedese, dallo spagnolo al portoghese e neerlandese, dal francese all’inglese), ha varcato un significativo traguardo e gli chiedo:
B. Come vivi alla bella età di 86 anni?
R. Ottantasei anni? Io ne ho ottantasei? Ma sei sicura?
B. Sì, Cesare, sei nato nel 1924, come Mike Bongiorno, e Marlon Brando.
R. Sì? Controlla, mi raccomando… (ride) Beh, sto discretamente bene, diciamo che mi mantengo privo di vizi. Da tanto tempo - come sai - ho adottato un tipo di alimentazione moderata, faccio attività fisica.
B. E per quanto riguarda il tuo rapporto con la cultura e la politica?
R. Per la politica, lascerei stare.. (ora il sorriso è un po’ malizioso) Piuttosto leggo molto, un po’ di tutto.
Osservo che nei modi ha conservato il garbo e la consueta austera signorilità. Si esprime pacatamente, a volte con un alluso compiacimento, peraltro molto attenuato rispetto a quello che caratterizzava la personalità del nostro grafico amanuense, scopritore di una lingua alchemica, in cui tre sono gli oggetti: “la nobiltà del sacrificio/il desiderio dell’oggetto irraggiungibile l’ispirazione del dolore” (come si legge nel testo che apre la sezione Verso Dharma, la terza e ultima dopo Sinopsìe e Filosofia presque en prèt-a-porter).
B. Nel tuo lavorio di scoperta della poesia confluito nella pregevole collana “Elleffe” di Marsilio hai concesso ampio spazio alle poetesse: Annamaria Ferramosca, Isabella Panfido, Nadia Cavalera, Enrica Salvaneschi, solo per citarne alcune…
R. E Gabriella Bertizzolo…
B. Già (questa volta sono io a sorridere); perché autori quasi tutti appartenenti al gentil sesso?
R. È stata una mia precisa scelta quella di vagliare testi poetici di donne (e la sottoscritta sa con quanta severità, puntiglioso labor limae accompagnato a fondamentali consigli lo ha fatto!), perché in me stimolava particolarmente la personalità e vocalità femminile. Pensa che c’è stato un periodo della mia vita in cui leggevo testi in prosa e in poesia scritti esclusivamente da donne.
E le donne lo apprezzano, lo stimano e lo coccolano, a partire dalla bionda Antonella che gli ricorda gli impegni e lo accompagna nelle passeggiate per la città berica e Luisa, la simpatica coinquilina del primo piano che non si dimentica mai di preparargli la crema di piselli o la trota al vapore. Sono entrambe gentilissime e garrule, mi offrono il caffè e io colgo al volo l’occasione per scattare una foto di Cesare (o “Cesarino” come si lascia bonariamente da loro chiamare) sorridente fra le sue amiche. Appoggio la fotocamera su un ripiano dove da una custodia semi-aperta una medaglia d’oro emette mesti bagliori. “Premio Rocca Pendice di Teolo 1961”. Vicino, fra pile di libri e diplomi sorridono incorniciati i volti delle due donne che più hanno contato nella vita del “poeta pallido”: Francesca, la figlia, e Liliana, la moglie, entrambe prematuramente sottratte da un tragico destino. Affetti indelebili immortalati nella sigla “Elleffe” che unisce le iniziali dei due amati nomi.
B. Cesare, quali sono i posti che più ami di Vicenza?
R. Mi piace passeggiare nelle piazze, ammirare la Basilica del Palladio. Spesso vado alla Chiesa di S. Corona e al Duomo dove, a volte, assisto alle funzioni liturgiche.
B. E il tuo rapporto con Padova, tua città natale? (l’affetto sincero per la città del Santo lo aveva già dimostrato in Padova diletta, opera del 1988)
R. Conservo ancora una casa dove mi reco saltuariamente. “Padua fair, nursery of arts” è sempre nel mio cuore assieme ai tanti ricordi dei miei studi universitari che mi hanno reso il titolo di due libere docenze, in Radiologia e Radiobiologia.
B. Cesare, tu scrivi ininterrottamente da mezzo secolo, la tua produzione è di dimensioni ciclopiche. Hai utilizzato termini della scienza medica, del latino, del francese, del dialetto d’origine, hai creato moltissimi singolari neologismi… Sorride mentre termina di sorbire il caffè.
R. Sì, è vero, ho scritto tanto, mai contento di quello che scrivevo… Non sono mai stato completamente soddisfatto delle mie pagine, le ho continuamente revisionate, selezionate, rielaborate…Ho sempre volto la mente alla ricerca della perfezione senza mai dimenticare la complessità della classicità
B. Scrivi ancora, immagino.
R. Sì, spesso trascorro il tempo a comporre poesie e pezzi di critica sull’attuale situazione estetico- letteraria.
B. Quali poeti sono stati importanti nella tua formazione culturale? (so che è una domanda tabù, ma ci provo)
R. Senz’altro i classici dai quali non si può prescindere.
B. E fra quelli del Novecento?
R. Ma non saprei…
B. Ungaretti, Saba, Quasimodo, Montale?
R. Direi Quasimodo e Montale.
B. E Sanguineti?
R. Poveretto, lo so che non c’è più…
B. Che ricordo hai di lui, che pochi giorni prima di morire è venuto proprio qui a Vicenza?
R. Lo so. Io l’ho frequentato parecchio a Padova, facevamo assieme lunghe camminate. Era una persona seria, preparatissima, di grande rispetto. La sua scomparsa lascia un vuoto molto triste. Ma non parliamo di cose tristi..
Ho un nodo alla gola: avevo parlato col poeta genovese in occasione del suo intervento a “DirePoesia” a Palazzo Leoni Montanari. Mi ero sentita davvero privilegiata nell’ascoltare l’inconfondibile voce monocorde di quel senex mentre leggeva il suo inedito sonetto vicentino. E privilegiata mi sento anche adesso nel poter conversare familiarmente con quest’altro insigne senex (“stanco al tramonto”, Sinopsìe, pag. 89) che mi concede l’onore della sua amicizia.
Avevo incontrato Ruffato nel 2001 nella Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino in occasione di una rassegna poetica alla quale intervennero anche Fernando Bandini, Silvio Ramat, Franco Loi e Maria Luisa Spaziani. Un’eccezione quell’apertura al pubblico di Ruffato, appartato nel suo impenetrabile eremo, nonostante coltivi ancora corrispondenze epistolari e rapporti con moltissimi autori.
B. E fra le voci poetiche giovani, che cosa hai scoperto?
R Ho visionato molti manoscritti di giovani, vi ho riscontrato una certa dose di creatività estetica e poetica, ma direi che non ci sono ancora solide basi, siamo ancora in una fase di attesa.
La calura di questo primo giorno di luglio è mitigata dall’aria emessa da un delicato ventilatore che favorisce la nostra conversazione che solo da un po’ di tempo si era interrotta. Osservo le pile di libri, molti doppi e tripli, riviste e cartelle accatastati nelle mensole. Mi alzo, scorro con l’indice i dorsi dei volumi allineati negli scaffali, riconosco la rilegatura azzurra di “Scribendi Licentia” (summa della produzione dialettale che gli ha valso molti prestigiosi premi). Gli consegno il libro che sfoglia piano forse emozionato dai ricordi ….
R. Sì, l’ho scritto io.
B. Che importanza ha avuto per te l’uso del dialetto?
R. Molta, il dialetto ha pari dignità della lingua ufficiale, spesso l’arricchisce. A volte mi è servito a rendere realtà nascoste, sentimenti profondi che la lingua italiana non poteva fare. Nell’ultimo periodo della mia vita ho privilegiato l’uso della lingua italiana, senza mai dimenticare l’importanza di quella dialettale, materna.
Il mio pensiero va a Parola pìrola, I bocete, Diaboleria pubblicati dai nostri storici editori come Bino Rebellato, Campanotto…Alcuni non li ho letti ma spero di procurarmeli per avere una visione più completa dell’oceanica ed eclettica produzione di questo infaticabile sperimentatore della Parola. E della Vita.
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