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Cento anni. E la mimosa resiste

Cento anni. E la mimosa resiste

Otto marzo / 2 - La festa della donna si è affermata alla stregua di un “rito internazionale”. Intorno ad una data simbolica milioni di donne, nel mondo, hanno avuto l’intelligenza e l’intuizione di “tessere appartenenza politica e di genere”

Patrizia Gabrielli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2008

“Oggi in tutte le città e in tutti i villaggi d’Italia si celebra la ‘Giornata della donna’. Ed è doveroso che si ricordi questa data, anche qui, nell’Assemblea Costituente, nell’Assemblea democratica della Repubblica d’Italia, dove le donne, per la prima volta nella nostra storia, sono direttamente rappresentate”. Con queste parole Nadia Gallico Spano apriva il suo discorso all’Assemblea Costituente l’8 marzo del 1947, favorendo l’ingresso nelle austere aule di Montecitorio – segnate, come sarà a lungo nella storia del paese, da una visibile e preponderante presenza maschile - di una ricorrenza tutta femminile, densa delle aspirazioni, delle rivendicazioni, persino delle emozioni di tante donne. Nadia Gallico Spano ricordava l’impegno e la responsabilità dimostrata dalle italiane nella guerra e nella Resistenza; svolgeva riferimenti alla difficile fase della ricostruzione che le vedeva ancora una volta protagoniste; proprio in virtù di questo dispiegamento di energie vitali era tempo di riconoscere alle “coraggiose donne il posto che si sono conquistato nella vita italiana”.
Le parole e i toni adottati da Nadia Gallico Spano rispecchiavano il valore di senso e di significati attribuiti dai movimenti femminili a quella data: momento di mobilitazione politica e di festa, occasione di autorappresentazione collettiva.
Nel 1947 l’8 marzo aveva già avuto le sue celebrazioni: è tra il 1944 e il 1945 che la data riprende a circolare per poi rapidamente radicarsi e divenire un tassello significativo dell’identità dell’Unione donne italiane (il Centro italiano femminile avrà quale sua data simbolo il 30 aprile, Santa Caterina). Certo durante il regime fascista non erano mancati atti di opposizione proprio in questa giornata, inscenati per lo più dalle comuniste, ma la tradizione era molto debole e pure negli anni precedenti l’unica eccezione era data dai richiami della stampa comunista che, fedele alla Terza Internazionale, l’aveva inserita nel pantheon della rivoluzione del 1917, facendola risalire alla esultante manifestazione delle operaie russe alla vigilia del grande evento; né erano mancati riferimenti a Clara Zetkin, dirigente del partito socialista poi comunista tedesco presentata, per certi versi a ragione, vera e propria madrina della giornata.
In Italia passeranno diversi decenni prima che il richiamo ad una storia tanto connotata sul piano dell’appartenenza politica ceda il passo a una capace di affratellare orientamenti diversi, quella delle operaie morte nell’incendio della fabbrica tessile di New York durante uno sciopero che viene fatto risalire al 1908.
Del resto – come avvertivano Tilde Capomazza e Marisa Ombra nel 1987 con il libro “8 marzo. Storie miti riti della giornata internazionale della donna”’ – questa giornata non ha un fondamento storico preciso, si potrebbe affermare – parafrasando lo storico Erich Hobsbawm – che si tratta di una vera e propria invenzione; al pari del 1° maggio fu una tradizione inventata - lo suggeriscono le sue incerte origini e la sua continua evoluzione – capace di inglobare elementi rituali e simbolici e di affermarsi con gli anni alla stregua di un rito internazionale. Qui risiede la sua forza, l’intelligenza e l’intuizione politica di radicare una data simbolica intorno alla quale tessere appartenenza politica e di genere.
La fortuna dell’8 marzo nell’Italia repubblicana va certamente inquadrata lungo le coordinate delle nuove forme della politica inaugurate dai partiti di massa, ma anche e soprattutto con la volontà dell’Udi di conferire spessore e visibilità alla propria identità politica di genere attraverso forme immediatamente percepibili. Si assiste in questa fase alla ricerca di linguaggi capaci di collegarsi ad un universo di valori di riferimento, di suscitare emozioni, di alimentare un comune sentire, di procedere all’assemblaggio di segni capaci di colpire nella percezione visiva ed emotiva. Del resto ogni ricorrenza per essere visibile e tramandarsi deve poter disporre di un corredo di liturgie, miti, simboli e l’8 marzo ebbe presto i propri.
Il discorso politico circolò in quel lungo dopoguerra in luoghi e in forme meno consuete: fiori, bandiere, distintivi, canzoni e inni, un ricco apparato iconografico che fu spesso affidato ad artisti di fama, come conferma la preziosa collezione di manifesti custodita presso l’Archivio centrale dell’Udi a Roma, divennero i principali strumenti per la circolazione del messaggio politico; né si trascurarono le coreografie: “Uno dei miei ricordi più belli risale all’anno 1952. Organizzammo una grande sfilata, con un carro pieno di fiori bianchi con la colomba della pace, rappresentata da tre ragazze vestite di bianco con fasci di mimosa. Seguivano il carro altre ragazze vestite da contadinelle, che ricordavano il lavoro dei campi”.
Tra i simboli, il più tenace, capace di resistere a decisivi cambiamenti e persino alle rotture, la mimosa, il fiore giallo, simbolo della primavera e, soprattutto facilmente reperibile, che sostituì il garofano rosso e il mughetto inscritti nella storia del movimento socialista. Il fiore giallo divenne l’incarnazione della festa e si costruirono gli alberi della mimosa su modello di quelli della libertà appartenenti ad altre famiglie politiche. “Noi donne” propose ritratti di note dive cinematografiche adornate da rami di mimosa: è il caso di una splendida Gina Lollobrigida sulla copertina dell’8 marzo 1955.
L’attenzione a questi aspetti si coniuga strettamente con la definizione di altre forme della politica che privilegiano, e non solo nei primi anni della Repubblica, la socializzazione primaria: spettacoli teatrali, feste danzanti, merende, accompagnarono assemblee e conferenze, distribuzione di volantni e fiori nelle piazze e le strade delle grandi città come dei piccoli centri: “Il primo 8 marzo quando ci proponemmo di offrire la mimosa a tutte le donne ci fu una grande mobilitazione attorno al gruppo dirigente del Circolo del UDI. Andammo nelle scuole, all’ospedale, nelle fabbriche, nei negozi e ovunque, anche con assemblee e piccole riunioni”.
La giornata fu sempre coniugata con temi e questioni di rilevanza nazionale o internazionale tracciati nel calendario politico delle donne, tanto che gli slogan adottati disposti in sequenza cronologica potrebbero costituire un primo canovaccio per imbastire la storia della emancipazione e della liberazione delle donne in Italia.
Un simbolo nel nome della politiche femminili, allora, l’8 marzo, ma la dimensione della festa, con il suo carico di allegria, è uno dei cardini attorno al quale ruotano le memorie delle protagoniste di differenti generazioni: “una volta l’anno si faceva la grande festa dell’8 marzo, con tutte le case con la mimosa”, ed ancora: “dicevamo che era la festa delle donne e le donne si radunavano portando i loro bambini ed erano feste gigantesche [...]; le donne portavano torte grandissime. C’era la mimosa, il giornale, andavano casa per casa a raccogliere la roba [...] Quando era ora con una fisarmonica facevano entrare i mariti li facevano pagare dando loro la mimosa”.
E’ anche questa la dimensione che si addensa nella memoria delle donne che ricordano con gioia e orgoglio le energie impegnate per il successo delle iniziative e la carica emotiva che dominava l’atmosfera di quelle giornate, alimento per l’impegno futuro: “Il primo impatto che ho avuto all’Udi […] non mi ricordo esattamente ma fu probabilmente per un 8 marzo. Insomma mi ricordo una grandissima voglia di inventare delle cose. Anche la trasgressività se vuoi e l’allegria, la gioia di vivere, la voglia di esserci”. Così una militante, riferendosi agli anni settanta, ricompone quel clima di entusiasmo e gioia proprio della festa. Intanto la Giornata delle donne allarga il suo cerchio e si estende ben oltre i circoli Udi, nel decennio successivo è assunta anche dal Centro italiano femminile.
Negli anni settanta l’affermazione dei movimenti femministi e con essi di una nuova agenda politica per le donne si riversò anche sui simboli della tradizione definita non senza una punta di disprezzo – “emancipazionista”. Nel continente dei colori della politica primeggiò il rosa che troneggiò a lungo nelle coloratissime manifestazioni femministe colme di gioia, di rabbia, del desiderio di “esserci” mutarono slogan e parole d’ordine, ma l’8 marzo sembrò resistere – anche se furono numerose le incursioni del messaggio pubblicitario sui consumi che richiamavano all’acquisto dell’ultimo modello di lavatrici o di cioccolatini - e la mimosa criticata, ripudiata finì però sostanzialmente per restare un simbolo prediletto. Una giovane femminista nel 1978 scriveva sulle pagine di “Effe”:

“Oggi la mimosa è protagonista, è importante […]. A piccoli gruppi, mi vengono incontro altri mazzi di mimosa, macchie gialle sui vestiti, sui capelli, fra le mani. [...] Al mercato dei fiori, la mimosa è finita. Ne raccolgo un rametto per terra. Perché anch’io sono donna, anch’io voglio stringerla fra le mani”.

*Docente di Storia contemporenea e delle relazioni di genere Università di Siena (Arezzo)

(3 marzo 2008)

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