Mondo/ Le torturatrici e le kamikaze - Cosa c’è nelle teste e nei cuori delle Lynndie e delle Wafa Idris, torturatrici e kamikaze che hanno sconvolto gli schemi dell’essere portatrici di vita
Tiziana Petricca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2005
Drammaticamente di attualità, il tema del terrorismo pervade questa dura estate e ci obbliga a confrontarci con situazioni apocalittiche, preludi di un incerto futuro, cui contribuiscono anche le donne, non meno degli uomini. E’ su questo nuovo protagonismo che ci dobbiamo misurare e dunque “Torturatrici e kamikaze. Vittime o nuove emancipate?” è la domanda da cui sono partite le autrici per affrontare la questione della violenza e del terrorismo praticata dalle donne. Stefanella Campana e Carla Reschia sono giornaliste e proprio nella redazione de ‘La Stampa’ hanno sentito l’esigenza di riordinare le informazioni riguardanti attentati o violenze in situazioni di guerra o di gravi conflitti di cui le donne sono state protagoniste. Ne è nato un libro-inchiesta che ha il pregio di coagulare notizie, spesso difficilmente reperibili, provenienti da varie parti del mondo e anche riflessioni dettate dai vari tragici eventi man mano che accadevano.
Quali obiettivi ti prefiggevi con questo lavoro?
Carla - Lo spunto della cronaca, di due casi tanto lontani e diversi, eppure simili perché simile era la violenza che sembravano esprimere, mi ha suggerito il tema del confronto: davvero che cosa avevano in comune, Lynndie England e Wafa Idris? Entrambe sembravano avere rinnegato l’antico ideale di dolcezza materna che le loro rispettive culture, in disaccordo quasi su tutto, parevano condividere. Era importante parlarne, poteva avere un significato? La risposta mi è arrivata da Stefanella e dalla sua conoscenza del mondo del femminismo, con i suoi interrogativi storici e sempre attuali sulla “differenza”. Insieme abbiamo deciso che valeva la pena gettare una pietra nello stagno, affrontare un tema che ha fatto molto scalpore ma non è stato mai realmente approfondito, almeno nelle implicazioni che a noi sembravano tanto significative. Abbiamo deciso, da subito, che non volevamo né una “denuncia” né delle “rivelazioni”. Non volevamo insomma, dire, “Adesso vi spieghiamo noi che succede” ma piuttosto, “Tutti insieme, cerchiamo di capire”.
Stefanella - Appartengo a una generazione di femministe che ha creduto, sperato, che la differenza femminile potesse giocare un ruolo positivo per costruire un mondo migliore. E ancora lo auspico. Ma la cronaca di questi ultimi anni ha portato alla ribalta in scenari di guerra anche protagoniste al negativo, come le kamikaze e le torturatrici. Difficile ignorarle o rimuoverle: poche "mele marce" o nuove emancipate con cui fare i conti mentre ovunque, nei Paesi ricchi e poveri le donne continuano a essere vittime di violenze e soprusi? E' a partire da questo interrogativo che con Carla si è cercato di andare al di là delle foto sconvolgenti e dei titoli sensazionalisti scavando nei vissuti di queste kamikaze e torturatrici, nel loro mondo e nella loro cultura per offrire elementi di maggiore conoscenza e riflessione, lasciando alla lettrice e al lettore di trarre le sue conclusioni. E dando anche l'opportunità di mettere a confronto le proprie idee con quelle emerse in dibattiti e analisi raccolti nel libro. Un aiuto a guardare in faccia la realtà senza preconcetti e stereotipi.
Donne che scelgono di essere kamikaze o di fare le torturatrici. Sono due scelte di violenza, ma assai diverse tra loro. C’è differenza a tuo parere?
Carla - Ci sono differenze e analogie: il substrato comune sembrano essere la frustrazione e il bisogno di affermarsi in qualche modo. Questo vale per l’americana sradicata e ignorante Lynndie come per la profuga Wafa, sposa ripudiata, costretta ad assistere ogni giorno ad atti di prevaricazione e di violenza. Sono due perdenti che forse intravedono una via di riscatto, per quanto malata, distorta. Però che dire allora delle ragazze cecene, drogate e rapite per mandarle, volenti o nolenti, a morire? Nel libro abbiamo cercato di evitare l’aspetto più ideologico: quello, per capirci, che vede negli atti dei kamikaze una reazione “politica”, comprensibile. Questo non è il problema. O almeno ha a che fare con gli attentatori suicidi in generale, non è uno specifico femminile. Resta la violenza. E in questo senso quella delle kamikaze è più autodistruttiva, venendo meno anche l’innato istinto di autoconservazione. C’è chi legge in questo la degenerazione di una società che non ha più futuro se persino chi dà la vita la nega a se stessa e agli altri.
Stefanella - (la risposta vale anche per la domanda successiva n. d. r.)
Difficile dare una risposta netta e valutare queste donne con un'unica chiave di lettura. Ci sono kamikaze che sembrano scegliere la violenza estrema di darsi e dare la morte come gesto politico di chi non vede altre alternative adeguandosi a una logica distruttiva, ma ci sono anche kamikaze non per scelta, costrette da una cultura che chiede gesti riparatori alle donne che trasgrediscono. Le torturatrici non sono spinte dalla disperazione. In loro c'è compiacimento ad essere accettate nel club degli uomini, pronte a comportarsi come loro, a scimmiottare i loro comportamenti che sfoggiano con orgoglio. Kamikaze e torturatrici, pur nella loro diversità, sembrano però unite da uno stesso filo: agiscono in base a codici della violenza da sempre maschili, subendoli o accettandoli passivamente.
Sulla base della documentazione che avete raccolto ed esaminato, secondo te è un errore generalizzare e valutare queste donne e i loro comportamenti con una unica chiave di lettura?
Carla - Secondo me sì, perché più si approfondisce e più si scopre che alla fine ogni storia è a sé, ha le proprie particolarità. E che ogni punto di vista svela aspetti nuovi, inediti. Personalmente sono contro le teorie monolitiche, rocciose, che pretendono di spiegare il mondo abolendo le differenze. Sono una forma di fondamentalismo, mentre il mondo è un sistema complesso. Quando ho iniziato a occuparmi di questa ricerca avevo le idee più chiare di quando l’ho conclusa. Per me è un buon risultato. La strada contraria porta a una brutta deriva sulle civiltà superiori o inferiori.
Donne soldato, donne ‘maschie’ che non esistano anche quando c’è da fare ‘il lavoro sporco’. Donne in guerra uguali agli uomini, insomma. I percorsi di emancipazione, secondo noi, avrebbero dovuto avere approdi diversi. Ma l’entità del fenomeno è tale per cui possiamo dire infranta definitivamente l’immagine della donna come portatrice di vita?
Carla - Spero di no, ci sono tante donne, la maggioranza direi, che fanno figli - fin troppi a volte - mantengono fermamente e orgogliosamente un ruolo di custodi dei valori dell'intimità familiare e “combattono” sul fronte dell’umanità e della civiltà. Sono la maggioranza. Imputare a un genere l’errore o la follia o lo sviamento di poche sarebbe come dire che l’esistenza di Hitler e dei suoi accoliti condanna tutti i tedeschi.
Stefanella. L'immagine della donna come portatrice di vita rischia di essere limitativa. Emerge piuttosto una donna contemporanea dalle molte sfaccettature, non imbrigliabile in pochi modelli. Un segno di maggiore libertà di giocare il proprio femminile, nel bene e nel male.
Nella sua introduzione Khaled Fouad Allam sostiene che nella nostra epoca solo apparentemente i ruoli tradizionalmente affidati a donne e uomini sono stati superati. in realtà tra i due sessi continua ad esserci un “rapporto di subalternità, una relazione tra dominanti e dominati”. Concordi con questa analisi?
Carla - E’ una domanda che mi pongo spesso: analizzo i pro e i contro e non riesco a darmi una risposta definitiva. Sono cresciuta senza pensare che il mio essere “femmina” poteva escludermi. Ho avuto la fortuna di non trovare nessuno, né in famiglia né altrove, che mi facesse pesare questo aspetto e me ne sento libera. Quindi mi verrebbe da dire: no, non è così, non più. Ma se mi guardo attorno dico sì, è così. Tanto che alle volte mi viene da dire, ma perché indagare tanto su queste donne “cattive”, che c’è da capire? Alla fine hanno dato loro una possibilità di scegliere e loro hanno scelto. Sono cattive? E che dovevano fare? Ringraziare e sorridere? Non è femministicamente corretto, lo so, ma alle volte scappa.
Stefanella - Il pessimismo di Khaled Fouad Allam trova purtroppo non pochi riscontri. Se guardiamo al mondo della politica e alle ultime vicende, a cominciare dal referendum sulla fecondazione assistita, preoccupa l'assenza o quasi del protagonismo delle donne. Ma anche i dati che fotografano il potere delle donne nei vari settori, a cominciare dai mass media, mostrano una realtà femminile ancora scoraggiante, anche se riscontro nelle giovani generazioni sicurezze ormai acquisite e forte coscienza delle proprie capacità che fanno sperare in un futuro con meno "dominate". Un cammino che appare però terribilmente lungo se ci fermiamo all'indagine Onu sulle violenze alle donne, diffuse ovunque. Forse è per questo che una mia cara amica come Marina Cosi, presidente della CPO della Fnsi, si è lasciata scappare "ma c'era proprio bisogno di parlare dell'orrore di poche donne?" Sì, le ho risposto, perché siamo contro tutti gli "orrori", di qualunque "genere" siano. E le rimozioni non servono. L'importante è l'onestà intellettuale, senza strumentalizzazioni.
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