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Case chiuse: il dibattito infinito

Case chiuse: il dibattito infinito

Persiste il mito del maschio infelice. Intervista alla Prof.ssa Liliosa Azara

Venerdi, 31/03/2017 - Intervista alla Prof.ssa Liliosa Azara, Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre. Leggi articolo



Laura Boldrini ha dichiarato che è inammissibile che in un programma televisivo le donne siano rappresentate come animali domestici di cui apprezzare mansuetudine, accondiscendenza, sottomissione…

Il modello di rappresentazione femminile è intrinsecamente correlato all’evoluzione del costume del nostro Paese, cosi come all’evoluzione della sessualità e dell’erotismo. È pressoché impossibile spiegare la condizione della donna, se non in relazione alla percezione che il genere maschile ha della donna. Non è cambiato molto, da quando, negli anni Sessanta, si sosteneva che l’educazione impartita ai figli maschi si informava a due principi apparentemente contraddittori: da un lato si insegnava la prepotenza perché la donna, si diceva, capisce e ama solo la forza, non desidera essere convinta ma comandata, è schiava per natura, rispetta solo la mano che la percuote. Evitare ogni segno di debolezza era essenziale e anche l’amore offerto dall’uomo doveva essere di carattere concessivo. La donna, però, era anche rappresentata come qualcosa di complicato, di misterioso, diverso, con bisogni diversi...a partire, da un bisogno sessuale, neppure contemplato.



Cosa pensa della lista, offensiva nei confronti del genere femminile che presenta le donne italiane non sufficientemente brave con i loro compagni e quelle dell’Est, perfettamente rispondenti alle esigenze del maschio italiano?

Le stereotipizzazioni appaiono sempre inquietanti, soprattutto quando si conoscono le storture e le derive culturali a cui danno origine. L’individuazione di attributi bio-psichici e funzionali, che caratterizzano un modello femminile, richiama quelle produzioni pseudo-scientifiche che furono di Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero, pionieri dell’antropologia criminale, insieme con Giuseppe Sergi e Sante De Santis, uno dei padri della psicologia italiana. Il dibattito ricco e articolato circa la donna delinquente vede coinvolti negli anni Novanta dell’Ottocento psichiatri, antropologi e giuristi e contribuisce al successo della criminologia positivista, e quindi lombrosiana, che rintraccia le cause delle attitudini delinquenziali, anche femminili, nei ferrei dati biologici. Questa speculazione avrebbe ricevuto la sanzione definitiva sotto il fascismo, che avrebbe giustificato la subalternità della donna anche ricorrendo alla assodata sua fragilità fisiologica.



Perché, in Italia, non è mai sopito il dibattito sulle case chiuse?

Tristemente constato che ancora oggi si rievoca la casa chiusa come “tempio della virilità maschile”, dove trovano soddisfazione bisogni e fantasie sessuali, che resterebbo altrimenti inespressi nella dimensione di una sessualità familiare. Chi lo afferma, quasi certamente non conosce i motivi ispiratori e le origini del regime regolamentare, sancito in Francia, dapprima nella prima metà del 1800, poi esteso al resto dei Paesi europei. A teorizzare la necessità di istituire luoghi deputati all’esercizio della prostituzione fu un medico francese, Parent-Duchâtelet, ispettore del sistema fognario di Parigi. Era convinto che le prostitute fossero necessarie nelle città ad accogliere gli sfoghi sessuali maschili, quanto lo erano le fogne, le discariche e i depositi di immondizie. Sia pure nella necessità di mantenere le prostitute, occorreva, però, sorvegliarle, nasconderle, relegarle, insomma rendere la loro presenza la meno appariscente possibile. Il nostro Paese ha anche il triste primato di essere stato l’ultimo ad abolire la regolamentazione. Mantenerla significava mettere a rischio la stessa adesione dell’Italia all’Onu per il mancato rispetto dei principi di pari dignità tra uomo e donna che la Carta dell’Onu, per la prima volta, sanciva sul piano internazionale.



Quali sono le motivazioni per cui si ritiene che la casa chiusa sia la soluzione ad una forma di disordine morale delle nostre città?

Le motivazioni addotte dai cosiddetti regolamentisti non sono molto diverse da quelle che animarono il dibattito sulla legge Merlin, nella I e nella II legislatura dell’Italia repubblicana e addirittura il dibattito del secolo precedente che aveva visto un uomo come il deputato repubblicano Agostino Bertani, schierarsi contro l’allora presidente del consiglio della sinistra storica Agostino Depretis, accusandolo di fare da cassiere ai lupanari. Oggi riecheggiano le teorie della salvaguardia della salute pubblica, della morale, del male minore e soprattutto della necessità ineludibile della casa chiusa, sempre preposta ad accogliere gli insopprimibili sfoghi sessuali maschili. Il tutto nella cornice di una supposta direzione unilaterale nella trasmissione delle malattie veneree, in cui la responsabilità è unicamente imputata alla donna e mai all’uomo. In altre parole, una riproposizione della doppia morale che non è mai stata mai messa in discussione. Che la Chiesa cattolica abbia avuto un ruolo nella formazione dell’identità maschile e femminile è fuori dubbio. Posto che la continenza e la castità sono valori irrinunciabili per la donna, il cui vero capitale era rappresentato dalla verginità, gli uomini dovevano pur trovare soddisfazione ai bisogni incontenibili di sesso.



Lei si occupa di storia della prostituzione ed è prossima la pubblicazione del volume" L’uso “politico” del corpo femminile"?

Io studio da anni il fenomeno della prostituzione regolamentata, meglio definita come prostituzione di Stato, dal primo regolamento che il nostro Paese adottò, nel 1860 fino alla nota legge Merlin che, nel 1958, abolì la regolamentazione delle case chiuse e poneva fine alla vergogna dello Stato lenone. Il mio ultimo lavoro, in uscita in questi giorni, è "L’uso “politico” del corpo femminile. La legge Merlin tra moralismo, nostalgia ed emancipazione", per Carocci. Il volume ricostruisce il decennale dibattito parlamentare che accompagnò la proposta di legge della senatrice Lina Merlin, fino all’approvazione definitiva alla Camera dei deputati, nel 1958. Una battaglia, quasi isolata, di una donna che nelle case chiuse vedeva la deliberata volontà statuale di mantenere migliaia di donne in una condizione di sfruttamento economico, di limitazione della libertà e di mortificazione della dignità personale, in evidente contraddizione con lo spirito e la lettera della nuova Costituzione repubblicana.

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