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Casalinghitudine. Un 'affare' per le donne?

Casalinghitudine. Un 'affare' per le donne?

Sondaggio di maggio - 'quella beatitudine della casa non c’è mai stata' Clara Sereni

Rosa M. Amorevole Lunedi, 14/06/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2010

“La parola casalinghitudine, oltre che nel linguaggio comune, è ormai entrata nel dizionario. Solo che ha perso il suo significato originario e originale, che era un significato critico. L’idea del paradiso perduto delle nostre madri, dell’onnipotenza che non c’è più, altro non è che l’affermazione del contrario, del fatto che quella beatitudine della casa non c’è mai stata. Per le donne che proprio oggi sono ben poco potenti, è un termine attualissimo”.



CLARA SERENI, 2010

 



Quando nel 1987 Clara Sereni inventò il termine “casalinghitudine”, lo associò a un modo di raccontare la vita attraverso il cibo, e le sue diverse modalità di preparazione. Semplici ricette che scandivano il racconto di una vita. Ogni piatto, ogni preparazione, rievocava un frammento di memoria, un incontro, un periodo. L'infanzia, i rapporti famigliari, l'amore, l'impegno politico, gli affetti, la maternità. Così il '68 ruotava intorno a una pasta e fagioli, e il padre che discute con Nenni si legava a una frittata di zucchine. Una sorta di linguaggio parallelo, in grado di raccontare qualcosa in più o qualcosa di diverso da quello che la parola dice.

Se per il dizionario italiano il termine casalinga indica “donna che si dedica esclusivamente alla casa”, nella realtà dei fatti il termine “casalinghitudine” appare forse più consono oggi a rappresentare una forma di linguaggio che tiene insieme i tanti ruoli che le donne vivono.

In un certo senso l’opposto di quanto rappresentato dall’espressione “casalinga di Voghera”, inventata da Alberto Arbasino e molto comune nel lessico giornalistico, con cui si intende rappresentare quella fascia di popolazione italiana piccolo-borghese, dal basso livello di istruzione e che svolge un lavoro molto semplice o umile. Uno strato sociale peraltro da rispettare “per il suo senso pratico di stampo tradizionale di cui è portatore”.

Le due espressioni indicano un diverso modo di vedere il lavoro casalingo, e il primo termine è stato utilizzato per aprire una riflessione sul lavoro domestico. Ma il lavoro domestico e di cura, ancora oggi a prevalente appannaggio del genere femminile come ci conferma l’ISTAT ormai da troppi anni, non è per le donne visto come destino se oltre il 79% delle risposte affermano che non è - o non dovrebbe essere - né maschile né femminile. Purtroppo sulle risposte pesa quello scarno 3% di chi dichiara essere ormai una realtà condivisa fra i generi.

E le risposte aperte si sono focalizzate su alcuni punti comuni: rispetto al lavoro di cura esiste una precisa percezione che “si vuole che sembri un destino femminile, e non una capacità da apprendere e quindi acquisibile da tutti”; “le donne debbono ripensare l’educazione dei figli maschi” che troppo spesso esonerano dai compiti di aiuto in casa.

Quanto vale il lavoro domestico e di cura? Nel corso degli anni, in assenza di una espressa previsione di legge, la giurisprudenza dei tribunali e della Cassazione si è dimostrata molto sensibile verso questa problematica e oggi l’orientamento prevalente ritiene che l’attività di casalinga sia una attività suscettibile di valutazione economica, pertanto la sua compromissione genera un danno patrimoniale che dovrà essere risarcito. La Cassazione, infatti, ha ribadito più volte che si tratta di una attività che “non si esaurisce nelle faccende domestiche”, ma si estende al coordinamento della vita familiare e il suo fondamento va rinvenuto nell’art. 4 della Costituzione ovvero nella libertà di scegliere qualsiasi forma di lavoro.

Un lavoro che presenta anche seri problemi di sicurezza, e le statistiche sugli infortuni domestici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità evidenziano come il 41% delle donne che lavorano fra le mura domestiche siano tra queste ricomprese.

Già nell’art. 1 della L. 125/91, alla luce dei dati che indicavano nella doppia presenza delle donne (divise tra il lavoro casalingo e quello professionale) le origini delle mancate pari opportunità tra donne e uomini nel lavoro, si forniva un importante spunto per le azioni. Si suggeriva, attraverso azioni positive, di “favorire - anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni del tempo di lavoro - l’equilibrio fra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità fra i due sessi”.

Se la cultura ancora non ha fatto i necessari passi, la realtà dei fatti ci pone davanti a condizioni molto differenti dal passato: un pari desiderio di riconoscimento nel lavoro per donne e uomini, la necessità di un doppio reddito familiare, orari sempre meno tradizionali, cambiamenti che impongono alle giovani generazioni un salto di qualità. La condivisione non più come scelta ma come necessità. Del resto, afferma una lettrice, “pulizie e cura sono una sorta di manutenzione della vita di tutte e tutti, e come tali debbono essere a carico di tutte e tutti”

Qualche anno fa, in una ironica striscia di Pat Carra, un uomo lamentava che oggi “non ci sono più le donne di una volta” fino ad arrivare - nell’ultimo riquadro - a confessare che la diretta conseguenza di ciò era quella di “tante camicie da stirare”. La nostra risposta oggi potrebbe essere molto semplice: “Caro, l’asse da stiro e il ferro sono nello sgabuzzino!”



(14 giugno 2010)

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