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Casa Africa ci racconta i molti femminismi dello scenario africano

Casa Africa ci racconta i molti femminismi dello scenario africano

Quando si parla di donne africane si fa riferimento ad una realtà complessa ed estremamente variegata dal punto di vista culturale, ma soprattutto geopolitico, su cui occorre fare chiarezza.

Domenica, 08/03/2015 - Casa Africa (http://casa-africa.blogspot.it/), realtà associativa vivace e impegnata, si affaccia su un continente davvero complesso, guarda e tutela gli interessi di molte etnie, ha un'ottica necessariamente multiculturale e interreligiosa, associazionista prima ancora che femminista. Per questo è a Casa Africa che abbiamo posto le domande più interessanti, suscitate da questa giornata dell'8 marzo.



1. In quali battaglie sono impegnate le donne africane? E' possibile riassumerne il senso e lo spirito?



Quando si parla di donne africane si fa riferimento ad una realtà complessa ed estremamente variegata dal punto di vista culturale, ma soprattutto geopolitico, su cui occorre fare chiarezza.



Parliamo delle donne dei paesi arabi del Nord Africa (dal Marocco all’Egitto) e di alcuni paesi del Centro Africa (Mauritania e Sudan) a maggioranza islamica. Parliamo delle donne dei paesi Sub Sahariani e del Centro Africa (come Mali, Nigeria, etc.) che arabi non sono ma che sono a maggioranza islamica. Infine facciamo riferimento alle donne che vivono nei paesi dell’Africa Centrale e del Sud (Congo, Angola, Ruanda etc.) a maggioranza cristiana.



Le donne dei paesi arabo/islamici del continente africano condividono poi le esperienze e le battaglie delle donne di altri paesi arabo/islamici che non fanno parte del continente africano (dalla Palestina all’Arabia Saudita, dalle Monarchie del Golfo all’Iraq e alla Siria), nonché di altri paesi islamici che arabi non sono (come Iran, Pakistan e Afganistan).



L’appartenenza allo stesso mondo islamico caratterizza la peculiarità delle battaglie di queste donne che, seppure in misura diversa quanto agli obiettivi, all’intensità e agli esiti a seconda del sistema politico che governa i paesi in cui vivono (dalla monarchia assoluta dell’Arabia Saudita alla repubblica parlamentare laica della Tunisia), perseguono i diritti di uguaglianza senza rinnegare il loro credo religioso, ma disponendosi a una rilettura dei sacri testi in chiave paritaria. Si parla perciò di movimento femminile islamico. Un’operazione ermeneutica quella della rilettura dei testi sacri nella prospettiva della parità di genere che appare forse più agevole nella religione islamica di quanto non lo sarebbe (se venisse fatta) nella religione cristiana tenuto conto che nella prima mancano alcune premesse fondamentali che penalizzano la donna e che invece sono presenti nella seconda: il racconto coranico, infatti, non demonizza Eva e non conosce il peccato originale.



Gli obiettivi e i risultati sono, come si è detto, assai diversi e si scontrano spesso anche con l’ignoranza diffusa in certe regioni, per lo più rurali e governate da culture tribali, in cui sono frantumati alcuni Paesi (come il Pakistan o l’Afganistan). E così mentre in Pakistan la battaglia delle donne è per il diritto allo studio (Malala), in Iran il 65% degli studenti universitari sono donne. Mentre in Arabia Saudita le donne sono costrette a portare il burka e hanno bisogno di un tutore per esercitare qualsivoglia diritto ed attualmente si mobilitano per il diritto di guidare l’automobile (il “Women to drive movement” che simboleggia il diritto a condurre la propria vita), in Tunisia le donne hanno conquistato una Costituzione laica che garantisce la parità di genere e in Marocco hanno ottenuto la riforma del diritto di famiglia e l’abolizione dell’articolo del codice penale sulle nozze riparatrici (norma che in Italia è stata abrogata solo nel 1981).



Impossibile elencare tutti i nomi delle numerose intellettuali, professioniste, attiviste, giornaliste, blogger che in questi paesi hanno costruito associazioni, siti e blog con il lemma parità e dignità. Donne che durante la primavera araba sono scese in piazza insieme agli uomini per rovesciare dittature corrotte. Che diffondono la nuova immagine femminile attraverso i social media. Che nelle università organizzano seminari, corsi e conferenze per divulgare e dibattere i risultati delle loro ricerche sui testi sacri.



Le battaglie per la dignità e la giustizia sono costate la vita a molte donne. Amina Filali, sedicenne marocchina, nel marzo del 2012 si tolse la vita perché non poteva più tollerare di vivere insieme al marito che era stata costretta a sposare in virtù delle ”nozze riparatrici". Un anno prima la marocchina Fadoua Laroui, nubile e madre di due figli si era tolta la vita dandosi fuoco per denunciare col suo gesto estremo le condizioni sociali e le ingiustizie che subiscono in Marocco le ragazze madri, considerate alla stregua di prostitute. In Iran Reyhaneh Jabbari uccise colui che aveva tentato di usarle violenza. Processata non venne creduta. Accusata di omicidio volontario fu giustiziata per essersi rifiutata di ritrattare l’accusa di tentato stupro come richiedevano i parenti della vittima.



Nel frattempo in molti di questi paesi si sono intensificati gli scenari di guerra, dal Medio Oriente (Iraq, Siria, Yemen) a tutta l’Africa Centrale (Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Darfur, Mali, Nigeria, Congo...). Conflitti questi ultimi che i media occidentali per lo più liquidano come tribali, etnici o religiosi, ma che in realtà sono scatenati dalle lotte di potere anche di ex potenze coloniali e delle multinazionali ad esse legate per il controllo di ricchezze naturali come il petrolio, l’uranio, i diamanti, l’oro e il coltan. Ci piace ricordare al riguardo le parole di Papa Francesco nell’omelia pronunciata durante la visita al Sacrario dei Caduti della Prima Guerra Mondiale a Redipuglia il 13 settembre scorso, parole con cui ha puntato il dito contro coloro che ha definito i "pianificatori del terrore". “Dietro le quinte, ha detto, ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”.



La stessa Primavera Araba, l’insieme di proteste e rivolte che nel corso del 2011 hanno sconvolto il mondo arabo e in pochi mesi hanno fatto cadere dittature decennali, è stata spazzata via da contrapposti interessi di potere, anche di potenze straniere. Allo stato attuale solo la rivoluzione dei gelsomini tunisina è risultata vittoriosa. Anche se ha destato sconcerto il fatto che sui 42 membri del neo-costituito governo solo 8 donne hanno ricevuto un incarico, di cui solo tre di tipo ministeriale.



In questi scenari di conflitti e di instabilità politica si è poi andato affermando il terrorismo dell’Isis, quello di Boko Haram e di Al-Qaeda. Difficile in tali contesti per le donne che lottano per la sopravvivenza far sentire la loro voce.



Tuttavia anche in questi scenari vi sono esempi di donne coraggiose costruttrici di pace. Come Aminata Traorè, ex ministra della cultura del Mali, una delle voci più autorevoli dell’antiglobalizzazione che ultimamente ha condotto una grande campagna a livello internazionale lanciando diversi appelli contro la guerra nel suo paese e contro il predominio degli organismi finanziari che dettano l’agenda politica ai governi eletti democraticamente. Rivendica l’autodeterminazione dei popoli africani da costruire attraverso l’unità e il dialogo. O come Catherine Samba-Panza presidente della Repubblica Centrafricana col difficile compito di riportare la pace in un paese in balia delle violenze.



Scendendo più a sud nel continente africano troviamo poi le donne in prima linea nella costruzione di paesi usciti da crisi e guerre civili, come a dire che una volta che gli uomini hanno fallito nel compito di governare sono le donne a prendere in mano il controllo della situazione. Pochi forse sanno che mentre oggi nel mondo la rappresentanza femminile nei parlamenti è solo del 19%, l’Africa rappresenta un dato in controtendenza con una percentuale femminile in alcuni paesi africani in media del 35%. Il primato è del Ruanda che con il 54,9% di presenza femminile nel parlamento supera il 46,5% della Svezia. Vi sono poi donne capi di stato come Ellen Johnson Sirleaf, per due volte presidente della Liberia, un paese sconvolto da 27 anni di guerra civile. Considerata donna di ferro contro la corruzione il suo lavoro consiste soprattutto nel mettere le basi di un discorso di riconciliazione, recuperare l’autorità del governo minata dalla figura del precedente presidente Charles Taylor processato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini di guerra, cancellare il debito e ristabilire i servizi basici per la popolazione. Altre donne si sono avvicendate come capi di governo in altri paesi africani, come Joyce Banda in Malawi, Aminata Touré in Senegal.

In Liberia, Guinea e Sierra Leone un gruppo di donne ha costituito la «Rete delle donne del Mano River per la pace» (MARWOPNET). Il Mano è il fiume che attraversa i tre paesi interessati. La loro azione ha rafforzato la pace tra i paesi della Sierra Leone e della Liberia che avevano conosciuto 10 anni di guerra. Questa rete oggi riconcilia famiglie e clan e favorisce il ritorno dei rifugiati.



In Sud Africa Ashwin Desai, professore di sociologia nell’Università di Johannesburg, nel libro "Noi siamo i poveri. Lotte comunitarie nel nuovo Apartheid", racconta le esperienze comunitarie nelle township e le forme di lotta adottate dalla popolazione (come quelle consistenti nel riallaccio delle forniture dei servizi di acqua e luce precedentemente disconnessi, nel boicottaggio del pagamento dei servizi e degli affitti e nell’opposizione agli sfratti) sottolineando come in questi movimenti in prima linea ci siano le donne.



2. Queste battaglie hanno dei punti in comune con le nuove sfide del femminismo europeo ed occidentale? Se sì, quali? Se no, in cosa si discostano?



Occorre premettere che tutte le battaglie delle donne per la parità hanno un fondamentale punto in comune, almeno in linea teorica. Sono innanzitutto battaglie contro quella cultura patriarcale da cui traggono linfa le strutture di potere che si manifestano nel colonialismo e nelle varie forme di razzismo, sessismo e classismo. Sono battaglie per la costruzione di un diverso sistema di valori fondati sull’eguaglianza e il rispetto della persona e su cui poggia, in ultima analisi, la cultura della pace. La prospettiva di genere costituisce in altri termini un parametro di riferimento ed uno strumento di valutazione dei criteri su cui è fondata la società ed è capace di mettere a fuoco ogni altro tipo di disuguaglianza e di esclusione anche non di genere. Queste furono le importanti conclusioni a cui pervennero i movimenti femminili mondiali chiamati a raccolta nelle Conferenze Mondiali sulle donne convocate dalle Nazioni Unite negli anni ’70, ’80 e ’90 del secolo scorso. Momenti che segnarono l’incontro delle donne Nord/Sud e in cui vennero definiti progetti politici a vasto raggio per una strategia globale dei diritti umani fondati sull’eguaglianza.



Detto questo ci sembra che, di fatto, le battaglie portate avanti dalle donne africane e/o arabe e/o islamiche si differenzino da quelle delle donne europee e occidentali per un impegno ed un’attenzione maggiori verso il sociale nell’ottica di una riorganizzazione dei loro paesi su altri sistemi di valori. Il movimento femminile islamico per esempio, coglie nella rilettura dei testi sacri principi che non riguardano solo la donna, ma sono universali. Le donne che lavorano nei paesi sconvolti dai conflitti o usciti dai conflitti si preoccupano soprattutto di realizzare un nuovo tipo di società fondato sull’autodeterminazione, sull’uguaglianza e sulla lotta alla corruzione. Si tratta a ben vedere di battaglie che veicolano la democrazia e la pace.



Ci sembra invece che ultimamente le battaglie delle donne europee e occidentali abbiano tradito l’universalismo dei movimenti femminili originari e siano diventate per lo più autoreferenziali. Disattente e a volte perfino contrapposte alle battaglie che altri soggetti conducono per l’affermazione dei loro diritti fondati sull’eguaglianza.



Un’altra caratteristica che connota il movimento femminile delle donne africane e arabe da quello delle donne occidentali consiste nel fatto che le loro battaglie non vanno a detrimento dell’attaccamento ai vincoli familiari e alle tradizioni del proprio paese di cui anzi vogliono recuperare l’identità troppo spesso deturpata dal colonialismo.



Infine occorre sottolineare che esiste una decisiva differenza fra le culture dei due movimenti per quanto attiene all’uso del corpo femminile posto che il femminismo occidentale, secondo un malinteso concetto di libertà (o meglio “liberismo”) sessuale, arriva al punto di giustificarne il commercio nell’industria del sesso.



Ci sia consentita infine un’osservazione riguardo all’atteggiamento di superiorità e all’immagine stereotipata che molte donne occidentali hanno nei confronti delle donne africane e/o islamiche. Immagine stereotipata che non tiene conto di una realtà complessa e in continuo movimento e di cui viene fatta un’insopportabile strumentalizzazione a livello internazionale e che, a giusto titolo, alcune femministe occidentali indicano come il prodotto dell’intreccio tra sessismo e razzismo.

Le donne occidentali dimenticano che l’emancipazione femminile, ovvero il processo grazie al quale alle donne non è più applicato il trattamento giuridico riservato ai “soggetti incapaci”, è stato nel mondo occidentale un fatto piuttosto recente. Fino a poco più di un secolo fa in Italia e in molti altri regimi c.d. liberali, quali Gran Bretagna e Stati Uniti, Francia le donne non potevano votare né ricoprire incarichi pubblici, le donne sposate non erano libere di disporre del denaro che guadagnavano con il proprio lavoro e non potevano promuovere un'azione legale. In Italia solo nel 1919 fu promulgata la legge sulla capacità giuridica della donna che abrogava l’istituto della potestà maritale.

Le donne occidentali non tengono conto delle difficili condizioni geopolitiche dei paesi in cui le donne africane e/o islamiche sono costrette a vivere, in uno status che è tra i più precari del mondo. Non tengono conto del fatto che lo stesso integralismo islamico che considera la donna araba come l’ultimo baluardo da difendere dell’identità musulmana trova origine soprattutto nella strumentalizzazione politica che dei dettami religiosi viene fatta dal mondo arabo in chiave antioccidentale e anti colonialista.

Non si interrogano, infine, sulle responsabilità che i governi dei loro paesi hanno e hanno avuto nel creare certe situazioni di instabilità, conflitto e antagonismo. Al riguardo ci sembra opportuno riportate le incisive parole di Aïcha El Hajjami, giurista marocchina, nell’articolo “A proposito del sedicente Stato Islamico”, recentemente pubblicato dalla Libreria delle donne: “c’è di che interrogarsi sulle conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabo-musulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali; del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro”.



A proposito dell’immagine stereotipata delle donne africane pochi sanno che nel continente africano è in vigore dal 2005 il Protocollo di Maputo sui diritti delle donne in Africa. Una convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione e violenza verso le donne e per l’avvio di una politica di parità fra i sessi che prende in considerazione alcuni aspetti di fondamentale importanza per l’emancipazione e l’empowerment delle donne africane coprendo un’ampia varietà di temi.



3. L'8 marzo è una giornata ancora "internazionale"? O resta, ad oggi, una data per le femministe europee e perlopiù americane?



L’idea di fissare una giornata della donna (Woman's Day) ebbe effettivamente origine negli Stati Uniti nel 1909 su iniziativa del Partito socialista americano in appoggio alle manifestazioni per il diritto di voto delle donne che la fissò l’ultima domenica di febbraio. La ricorrenza ebbe all’inizio una connotazione fortemente politica e venne proclamata dai partiti socialisti europei in occasione di eventi e lotte sociali in date diverse. La data dell’8 marzo venne fissata per prima volta nel 1921 come “Giornata internazionale dell'operaia“ dalla Conferenza internazionale delle donne comuniste tenutasi a Mosca. Nel secondo dopoguerra, con la guerra fredda, la ricorrenza perse lo stretto ancoraggio alla cultura dei partiti socialisti e si aprì alle nuove tematiche portate avanti dai movimenti femminili. Venne tuttavia mantenuta l’idea che dovesse celebrare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne. Fu così che in molti paesi, per lo più occidentali, venne fissata la data dell’8 marzo in ricordo del tragico epilogo con cui si concluse la mobilitazione portata avanti dalle operaie di una fabbrica tessile di New York, morte nel rogo della loro fabbrica.

Nel frattempo i movimenti e le battaglie femminili si andavano diffondendo su scala internazionale. Fu così che venne decisa l’istituzione di una giornata internazionale. Nel 1977 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione con cui proponeva ad ogni paese, nel rispetto delle tradizioni storiche e dei costumi locali, di dichiarare un giorno all'anno "Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale".



In molti paesi africani e in alcuni paesi arabi viene dedicata alla donna, in date diverse, una giornata che celebra episodi significativi delle battaglie femminili ed è l’occasione per fare un bilancio dei progressi fatti, mobilitarsi per rivendicare nuovi diritti e denunciare le discriminazioni ancora subite.



In Sud Africa il 9 agosto si commemora la mobilitazione con cui nel 1956, in pieno apartheid rischiando la vita, 20.000 donne si radunarono davanti la sede del governo per protestare contro l’imposizione dei “pass”.

La giornata della donna viene celebrata in Tunisia il 13 agosto. In tale giorno, nel 2012, migliaia di donne si riversarono nelle strade di Tunisi per chiedere l’immediato ritiro della norma inserita nel progetto di riforma della costituzione che voleva cancellare il principio di parità tra i sessi riducendo la donna a semplice complemento dell’uomo nell’ambito della famiglia e della società.



In Marocco la giornata della donna si celebra il 10 ottobre, in Gabon il 17 aprile, in Niger il 13 maggio. Mentre si celebra l’8 marzo in Senegal (dove è festa nazionale), in Congo, in Burkina Faso (dove, dal 1984, è stata proclamata festa nazionale per decisione del compianto presidente Thomas Sankara), in Algeria e in Camerun, dove la giornata viene vissuta come una grande mobilitazione delle donne in tutto il paese, dalle campagne alla capitale.



Una curiosità: in Iran il 19 aprile dello scorso anno la moglie del presidente Rouhani volle celebrare una giornata della donna organizzando una cena tutta al femminile nel giorno dell'anniversario della nascita di Fatima, figlia del Profeta Maometto. L’iniziativa fu fortemente criticata come immorale dal deputato ultraconservatore Ruhollah Hosseinian che venne perciò sbeffeggiato sui social network da numerosi internauti.



Nel 1974 durante la Conferenza di Dakar dell’Organizzazione delle Donne Africane, organizzazione fondata in Tanzania nel 1962, venne designato il 31 luglio come “giornata della donna africana” (African Day Women).



Quanto detto prova come sia sentita dalle donne di tutto il mondo l’esigenza di disporre di una giornata in cui incontrarsi, confrontarsi per fare il punto dei progressi fatti e delle rivendicazioni ancora da portare avanti. Una giornata in cui scendere in piazza per far sentire la propria voce coinvolgendo così anche il mondo maschile. Il fatto che ciò avvenga in date diverse può essere il segnale di perduranti contrapposizioni che stentano a ritrovare quei punti unificanti e universali di cui abbiamo parlato sopra e che dovrebbero orientare tutte le battaglie femminili. Contrapposizioni che a volte traggono origine da una perdurante subordinazione ideologica delle donne alla cultura maschile. La giornata della donna dovrebbe essere veramente internazionale, unificante e, si aggiunga, scevra da condizionamenti commerciali...



4. Secondo voi, l'ottica femminista occidentale sta dimenticando di combattere delle battaglie più urgenti e più "globali"? Se sì, quali?



Ci sembra che il femminismo occidentale si sia uniformato alla visione economicista e utilitarista del sistema neoliberista che si è andato affermando in Europa e negli Stati Uniti e ai modelli culturali su cui questo sistema poggia. E’ così diventato autoreferenziale e si è chiuso in se stesso perché ha perso di vista quei progetti politici a vasto raggio per una strategia globale dei diritti umani fondati sull’eguaglianza e sulla tutela dei diritti dei più vulnerabili di cui abbiamo parlato sopra. Il fatto di riappropriarsi di questi valori significa per le donne valorizzare la propria diversità e far valere la propria capacità (empowerment) di contribuire ad una diversa organizzazione dei rapporti sociali.

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