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CALLE DE LA PIETA'

CALLE DE LA PIETA'

'Calle della Pietà'. L'ultimo giorno di vita del pittore Tiziano, colto da un malore che lo porta alla morte mentre sta dipingendo con la sua modella, sua ispiratrice e musa, nella sua abitazione in Calle della Pietà. Partendo da questo episodio il regi

Lunedi, 07/12/2020 - CALLE DE LA PIETÀ
Italia, 2012, 59′, colore, 4:3
un film di Mario Brenta e Karine de Villers
interpreti Biagio Gibilterra, Karine de Villers
fotografia Mario Brenta
montaggio e suono Karine de Villers
musiche M. Blanter D.Cimarosa C. Gardel G. Mahler
produzione Karine de Villers
postproduzione Controcampo Produzioni srl
distribuzione Apapaja Film srl di Mario Brenta e Karine de Villers

«La realtà creata dall’artista non è come egli crede eterna, ma si colloca anch’essa nella precarietà del divenire. Se l’arte fallisce nel suo tentativo di fermare il tempo non fallisce però in una sua altra funzione: quella di andare all’essenza delle cose. E riesce ad andarci è proprio perché fallisce nel suo primo compito: fallendo mette infatti in luce il senso profondo e ultimo della realtà, il suo “essere per la morte”» afferma alla fine del film Mario Brenta, che assieme a Karine de Villers, firma questo meraviglioso affresco sulle ultime ventiquattr’ore di vita di Tiziano, tra il mattino del 26 agosto 1576 e il mattino successivo. Una giovane donna compare per tutta la durata del film: una modella, una servetta, una cortigiana? Non lo sappiamo, come non sappiamo con certezza il suo nome - forse Maddalena? - certamente proveniente dal Cadore come il Maestro, interpretata da una moderna Karine. Nella sua solitudine Maddalena spesso è rapita in sguardi trasognati, sogni, riflessioni... Guarda dalla finestra, guarda la laguna e pensa alle montagne che sono al di là e forse oggi non si vedono. Tutto sarebbe dovuto cominciare dalla mosca. Nera, immobile, come morta alla luce dell’alba sul telo bianco che ricopre il dipinto, ma pronta a volarsene via non appena lui, Tiziano, si fosse avvicinato per riprendere il lavoro. Sarebbe bastata la sua ombra a metterla in fuga prima ancora che il telo fosse stato levato, ma sarebbe tornata... Il film è una riflessione sulla pienezza e sull’assenza, sul colore e sul buio, sull’andata e sul ritorno, sulla vita per la morte, sulla morte per la vita. E la clessidra in cui la sabbia passa attraverso la strozzatura del presente per trasferirsi in un passato senza più tempo né memoria, è un potente strumento metaforico, e non solo... Ecco allora che al mercato del pesce alcuni crostacei muovono ancora le chele, forse presaghi dell’imminente fine; un gabbiano azzoppato salterella a fatica nel viottolo mentre altri lottano per addentare rimasugli di pesce rimasto per terra. I gatti, sornioni e solitari (e non solo soriani), un tempo considerati dei veri e propri portafortuna nella lotta contro la peste, vagano ovunque, senza meta. Amati dal sommo pittore, dal regista e- si parva licet componere magnis - anche dalla sottoscritta, compaiono più volte. Ecco passare la nave da crociera Poesia (sarà casuale, ma la sottoscritta c’è stata proprio in quella nave, attirata più dal nome che dal programma!) nella Venezia del Duemila mentre si staglia la polena a forma di colomba. L’arte è nostalgia, "dolore del ritorno", desiderio di un ritorno impossibile nel passato, desiderio di fuggire la morte, l’arte è illusione e vive solo nella memoria altrui. E fare un film è nostalgia, è il desiderio di tornare alle cose in un impossibile ritorno del passato. In fondo non è che un altro patetico tentativo di fuggire la morte. Stracci, pezze rotte, ragnatele penzolano dai vecchi mobili, le foglie secche sono agitate dal vento e gli alberi hanno rami rinsecchiti, i sassi muti non vengono risvegliati dal crescendo delle musiche. A volte il connubio tra musiche e immagini è talmente avvincente che lo spettatore è rapito in un turbinio di emozioni. E allora compaiono i giochi d’acqua, vortici di vita e di purificazione; si intravede un seno, foriero di fertilità, di vita che continua; e l’alba insegue il tramonto colorato di rosso, di quel rosso che solo Tiziano seppe creare: una tonalità calda, forte, accesa che assumeva significati diversi in base ai soggetti del dipinto e a ciò che dovevano esprimere: la passione, la sensualità, il potere...
Tiziano Vecellio, eccezionale “creato” (Giorgio Vasari, "Vite") di Giorgione, due luminose perle del nostro Veneto, il primo (in realtà secondo cronologicamente) morto il 27 agosto 1576 nella sua casa ai Biri Grandi, a quasi 90 anni, il secondo ucciso dalla peste a 32 anni nel 1510 e sepolto a Venezia nell’isola del Lazzaretto Nuovo. Il senex cerca di guardare (Tiziano non ci vedeva ormai quasi più
e aveva smesso di usare i pennelli per dipingere direttamente con le dita) dalla finestra, oltre la laguna, oltre il lazzaretto (dove, nei gradi padiglioni erano rinchiusi gli appestati che disperatamente scalfivano i muri con scritte, piccoli disegni, immagini simboliche, brevi diari o soltanto nomi, per lasciare una traccia della propria esistenza), verso le natie montagne del Cadore. Due giorni dopo i ladri entrano nella sua casa e la svuotano di tutti gli oggetti di valore. Nessuna delle sue opere viene però toccata, nemmeno “La Pietà”, dipinta per la sua tomba ai Frari, incompiuta, terminata e in parte modificata dopo la sua morte da Palma il Giovane. È questo il valore dell’arte?
Tornata la calma, la mosca si è di nuovo posata sul quadro rimasto incompiuto sul suo cavalletto. Si è posata accanto al volto di Maria Maddalena, come pietrificata nel suo gesto di ribellione, il braccio alzato, la bocca aperta in un grido disperato: contro la morte, contro tutto.
«Tutto il dipinto sembra nascere dalla piccola immagine in basso a destra - un quadro nel quadro dove Tiziano e il figlio Orazio sono raffigurati in atto di devozione – e crescere attraverso la figura di Giuseppe D’Arimatea che ha le sembianze di Tiziano dalle cui
dita, che ormai da tempo non stringono più i pennelli, sboccia come un fiore appassito il corpo di Cristo. In questa tensione diagonale c’è tutta la paura della morte e il desiderio del pittore di entrare a far parte della scena rappresentata, di sostituirsi alla figura centrale del Cristo nell’abbandono nelle braccia della Vergine per una impossibile resurrezione. Di immortalarsi, mortale, in Cristo morto-immortale"».

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