Caso Franzoni - La linea difensiva dell’avvocatessa Paola Savio e il nuovo corso del processo per il delitto di Cogne
Giuliana Dal Pozzo Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2007
E’ entrata molte volte nelle nostre case in questi ultimi mesi: con discrezione e uno sguardo amichevole dietro i suoi spiritosi occhiali. Attraverso lo schermo televisivo abbiamo seguito i suoi gesti e le sue parole che ci sono sembrate quelle che avremmo pronunciato anche noi. Parlava di morte, di sangue, di delitto con tono grave ma non sensazionalistico, quasi avesse paura di ferire la donna che stava difendendo dalla tremenda accusa di figlicidio e la memoria del povero bambino che un mattina di gennaio era stato ucciso nel lettone dei genitori.
Paola Savio era l’avvocato d’ufficio assegnato ad Annamaria Franzoni per la sua difesa, dopo che si erano interrotti i rapporti fra lei e altri famosi avvocati. Quante volte, nel teatro o nel cinema, protagonisti come Sordi, Totò o Peppino De Filippo ci hanno fatto ridere con la macchietta dei difensori d’ufficio, rappresentandoli come individui sonnolenti che sanno solo appellarsi alla “clemenza della Corte”.
Ecco invece Paola Savio prendere l’impegno molto sul serio. C’è poco tempo per il nuovo processo in Corte d’Assise, ma i mesi che la separano dalla prima udienza li passa tutti a documentarsi sulla tragedia, a parlare con le persone coinvolte, con l’imputata e a sfogliare carte e codici.
In aula appare subito diversa dall’immagine dell’avvocato aggressivo e senza scrupoli che, con i pugni e con i denti, lotta per evitare al suo assistito una pena severa.
Niente invettive o accuse indiscriminate, niente colpi di scena, niente rivelazioni frutto di indagini personali alla Colombo. Si è sentito subito che il clima era cambiato, che si poteva ragionare con calma, con attenzione, con rispetto. C’era una donna, la si giudicasse innocente o colpevole, che per tutta la vita avrebbe pagato la morte del figlio, c’era un bambino ucciso in maniera atroce, e c’erano dubbi, tanti dubbi sull’accaduto. Paola Savio non aveva paura di affidarsi ai sentimenti. La sua voce, come scrive Bernanos nel suo “Diario di un curato di campagna”, era quella delle donne impegnate nella cura della famiglia: una voce che fa addormentare i neonati, rassicura i sofferenti, incoraggia i delusi delle vita, addolcisce l’agonia dei moribondi.
Due successi ha ottenuto la linea difensiva dell’avvocatessa Savio: quello di sgombrare il terreno da ogni traccia di veleno e quello di riuscire a far quasi dimezzare la pena inflitta ad Annamaria Franzoni.
Ma il miracolo vero, comunque finiscano le cose, e la Cassazione riconosca definitivamente l’imputata innocente o colpevole, è stato quello di vedere accanto al volto severo anche il volto umano, quasi affettuoso della legge. Nella fase finale del processo si sono sentite parole nuove e la madre del piccolo Samuele non è stata descritta come un mostro di crudeltà e menzogna, ma semmai come una donna esaurita e sola tutto il giorno nella sua casa di montagna, che ha perso il controllo dei suoi gesti per pochi, fatali minuti.
Sperando in un estremo ravvedimento o in un liberatorio ricordo, il Pubblico Ministero ha rivolto ad Annamaria Franzoni un accorato appello a collaborare con la giustizia, anche nel suo interesse, nei riguardi della sua coscienza e della gravità pena: ”Lei ha diritto alla pietà, come madre che ha perso un figlio…Noi le vogliamo bene e gliene vorremo anche se sarà giudicata colpevole”. Alla fine dell’ultima udienza, il Presidente della Corte d’Appello si è complimentato con la giovane avvocatessa d’ufficio per lo spirito nuovo con cui aveva condotto la difesa. Con voce pacata, con voce di donna.
(30 maggio 2007)
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