Giovedi, 28/10/2021 - Qualche settimana fa ho visitato una mostra organizzata dall’Unione dei Comuni della Romagna Faentina dedicata alle donne del territorio che hanno avuto un ruolo attivo nella resistenza partigiana e nella costruzione della Repubblica: la mostra è intitolata “Libere e protagoniste”, un titolo meraviglioso quanto quasi sovversivo! Ebbene durante la visita la guida (curiosamente un uomo) ha illustrato le storie di queste donne, arrivando ad un certo punto a parlare del ruolo delle madri costituenti – le 21 donne elette nell’Assemblea costituente –, che hanno fortemente voluto l’inserimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione della previsione secondo cui tutti i cittadini sono uguali e hanno parità dignità sociale “senza distinzione di sesso”, oltre che di lingua, di religione e di tanti altri aspetti. “Serviva ribadirlo? Non è scontato?” ha osservato una delle donne presenti. Ebbene non era affatto scontato. Serviva ribadirlo. Era il 1948.
Sono trascorsi 70 anni. Oggi è scontato che uomini e donne hanno e devono avere pari dignità sociale, gli stessi diritti, le stesse opportunità? Serve ribadirlo? Evidentemente sì, serve ribadirlo. Se il parlamento ha appena approvato una legge che va ad integrare il “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” prevedendo strumenti che garantiscano la parità salariale e la non discriminazione sui luoghi di lavoro, evidentemente nel 2021 serve ancora ribadire che uomini e donne hanno e devono avere pari dignità sociale, gli stessi diritti, le stesse opportunità.
Certo viene da chiedersi – come ha osservato la filosofa Michela Marzano – che Paese è mai questo se per fare in modo che le donne siano remunerate esattamente come gli uomini ci sia bisogno di approvare una legge.
È statisticamente notorio che le donne in Italia si laureano di più, in meno tempo e con risultati migliori degli uomini; eppure è altrettanto notorio che le posizioni professionali apicali sono per lo più occupate da uomini. Il Global Gender Gap report del World Economic Forum colloca quest’anno l’Italia al 63° posto su 156 Paesi del mondo. E ciò non accade perché le donne mancano “di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi”, né a causa di “differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi” – come qualcuno sembra suggerire -; accade perché decine di ostacoli si frappongono nel percorso di avanzamento professionale di una donna. Primo tra tutti il carico del lavoro di cura familiare. In un romanzo di qualche anno fa lessi questa riflessione: “Un uomo che annuncia di doversi assentare dall’ufficio per andare a vedere sua figlia in piscina passa per un padre esemplare, affettuoso e sensibile. Una donna che annuncia di doversi assentare dall’ufficio per restare al capezzale del figlio malato, invece, viene tacciata di disorganizzazione, irresponsabilità e scarsa disponibilità. Che un padre faccia il padre è una dimostrazione di forza; che una madre ammetta di essere madre è segno di deplorevole vulnerabilità. Belle le pari opportunità, eh?”
Eppure già nel 1977 la legge stabilì che “è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”, che “la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore”, e che “è vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera”; legge fortemente voluta da Tina Anselmi, prima donna a ricoprire il ruolo di ministra nel 1976.
Ma se quindi alla domanda “Serviva ribadirlo? Non è scontato?” si deve rispondere sì, purtroppo non è scontato, come rispondiamo alla domanda: e ora che anche tale ovvietà è (nuovamente) tradotta in legge, ciò significa che automaticamente tutti i problemi professionali e salariali delle donne saranno magicamente risolti?
In questo caso la risposta è no. E per dire che la risposta è no bisogna tornare ancora all’articolo 3 della nostra Costituzione, laddove prevede l’obbligo per lo Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Si tratta del triste e famoso divario tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale: non basta la legge, serve che quella legge sia veramente e correttamente applicata per far in modo che sia efficace. Il problema è che l’applicazione pratica di una legge che va a regolare una materia influenzata da una fitta e profonda rete di pregiudizi culturali non è né facile né scontata.
Le leggi, anche le leggi migliori, quelle indispensabili, non servono a nulla se non si accompagnano ad un cambiamento strutturale della società.
Chiara Gribaudo, relatrice della legge alla Camera, l’ha presentata con queste parole: «Questa giornata e questo momento va a tutte noi, alle 470mila donne che hanno perso il lavoro durante la pandemia, a tutte coloro che vengono pagate meno o stimate meno dei loro colleghi uomini, alle donne che hanno i titoli, la competenza, l’esperienza e la preparazione ma apparentemente non il genere giusto per essere dirigenti o manager d’azienda».
Bene. Fatta la legge però ora viene la parte più difficile: tradurla in realtà. Cioè fare in modo che la neonata “certificazione della parità di genere”, istituita “al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità” non rimanga solo l’ennesimo pezzo di carta prodotto in un Paese strapieno di pezzi di carta, ma diventi il simbolo di quell’uguaglianza sostanziale che da più di settant’anni – o meglio da più di duemila anni – le donne aspettano. Per fare in modo che il dichiararsi “libere e protagoniste” non appaia più sovversivo.
Buon lavoro a tutte!
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