Intervista a Christine Weise - 50 anni di storia, 50 anni di azioni per i diritti umani, 3 milioni di persone associate e sostenitrici
Ribet Elena Lunedi, 02/05/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2011
Christine Weise è presidente di Amnesty International sezione italiana dal 2009. Nata in Germania, ha due figli, due lauree, e da sempre è attivista per i diritti umani. Sotto la sua presidenza a maggio si celebrerà, anche nel nostro Paese, il 50° compleanno dell’organizzazione.
Come si festeggeranno i primi 50 anni di Amnesty International?
L’evento su cui si concentrerà l’attenzione mondiale è previsto per il 28 maggio. Ci sarà il brindisi per i diritti umani e per la libertà, a partire da Londra e ovunque nel mondo, dove celebreremo questo momento con tanti eventi contemporaneamente insieme agli attivisti. In Italia i gruppi locali organizzeranno eventi in moltissime città, nelle piazze e presso i monumenti, coinvolgendo la società civile, i soci e le socie. Sarà una giornata dell’attivismo, un momento importante per promuovere le iscrizioni, per la diffusione degli appelli e delle campagne, in particolare quella sulla pena di morte in USA e Iran. Stiamo convogliando grandi energie in favore della libertà di espressione, per sensibilizzare sugli individui a rischio e i prigionieri di opinione, per i diritti sessuali e riproduttivi, ad esempio in Nicaragua. Inoltre stiamo promuovendo azioni per la responsabilizzazione delle aziende petrolifere nel delta del Niger, zona di grande ricchezza ambientale, con 30 milioni di abitanti, che da decenni viene inquinata e dove avvengono gravissime violazioni del diritto alla salute e di altri diritti umani.
Amnesty International continua ad essere un punto di riferimento importante sia come osservatorio dei diritti umani nel mondo, sia come punto nevralgico per azioni urgenti e mobilitazioni. Quanto contano la vostra esperienza e autorevolezza per la risoluzione delle violazioni dei diritti?
La forza di Amnesty International sta nella capacità di collegare due azioni; da una parte la ricerca molto approfondita sui singoli paesi, che sfocia nella pubblicazione di rapporti dettagliati, noti per la loro imparzialità e precisione; dall’altra parte la capacità di attivazione immediata di un grande numero di persone in tutto il mondo. Al momento possiamo contare su 3 milioni di soci e sostenitori, fra i quali moltissime persone disposte a manifestare in piazza, a scrivere lettere, firmare appelli individuali. In questi 50 anni Amnesty International, grazie alle informazioni accurate che abbiamo raccolto, è diventata un interlocutore rispettato dall’opinione pubblica, da organizzazioni internazionali e dai governi. Quando Amnesty chiama ad agire, viene ascoltata. Di recente abbiamo fatto appello alle Nazioni Unite sollecitando l’adozione di sanzioni contro il governo libico e dopo una settimana le nostre richieste si sono trasformate in una decisione unanime del Consiglio di sicurezza.
Senz’altro l’azione capillare di moltissimi soci che chiedono di fermare l’esecuzione di persone condannate a morte può avere effetto. Non sempre si riesce a fermare il boia, o a salvare prigionieri di coscienza, ma è importante comunque contribuire a una costante educazione ai diritti umani, a far crescere la consapevolezze che la lotta per il rispetto dei diritti umani deve continuare. Ogni generazione deve nuovamente conquistare dei diritti; a volte pensiamo che siamo liberi, che non ce ne sia bisogno, ma la storia ci dimostra che la tendenza a erodere i diritti conquistati è sempre in agguato, ed è quindi molto importante che i giovani siano consapevoli, far presente che i diritti spettano a ogni persona e che vanno protetti, che bisogna lottare per questo.
Quali sono le azioni di Amnesty rivolte specificamente alle donne?
Amnesty ha svolto una grandissima campagna mondiale contro la violenza sulle donne dal 2004 al 2010. Le campagne mondiali hanno solitamente un iter di sei anni, ma vista la gravità delle violazioni dei diritti umani delle donne l’attenzione su temi specifici resta alta. Abbiamo contribuito a far capire che la violenza contro le donne è una gravissima violazione dei diritti umani e che le donne hanno esigenze particolari perché spesso subiscono discriminazioni incrociate, che raddoppiano o triplicano i rischi, pensiamo alle donne sole con figli, oppure alle portatrici di handicap, o alle donne straniere. Come movimento abbiamo capito e fatto capire l’importanza dei diritti sessuali e riproduttivi, abbiamo promosso azioni concrete contro la minaccia della violenza domestica. L’autodeterminazione della donna rispetto al proprio corpo, il controllo della propria fertilità sono diritti che per le donne vengono continuamente messi in discussione, anche a causa di motivazioni culturali o religiose.
Nell’ambito della nostra nuova campagna mondiale, ”Io pretendo dignità”, che mette al centro i diritti economici e sociali, abbiamo intrapreso delle azioni contro la mortalità materna. Nell’Africa subsahariana ad esempio, donne povere che faticano a sfamare i figli non hanno non accesso agli strumenti per controllare la propria fertilità e devono a volte affrontare gravidanze che le indeboliscono enormemente. Nel caso di complicanze in gravidanza o durante il parto, in alcuni paesi dell’Africa subsahariana, muore una donna su otto, mentre nei paesi industrializzati in caso di complicanze la mortalità materna è stimata in 1 su 25000. L’azione di Amnesty ha già dato i primi frutti, con due governi africani (Sierra Leone e Burkina Faso) che si sono impegnati a migliorare l’accesso delle donne alle strutture sanitarie.
Come è arrivata a questo incarico?
Ho conosciuto Amnesty a scuola e mi sono iscritta durante gli studi universitari, mentre trascorrevo un semestre in Italia. Mi sono trasferita poi dalla Germania a Bologna, e c’è stata una “parentesi” per fare due figli, momento in cui è difficile coniugare attività lavorativa, familiare e il volontariato. Nel 2001, con i bambini un po’ più grandi, ho sentito la necessità di un impegno ulteriore. Ogni persona ha bisogno di sentire di poter cambiare il mondo, di essere utile in qualche modo per lo sviluppo delle idee in cui crede, di fare qualche azione concreta nella società. Mi riconosco pienamente nella visione e missione di Amnesty, il cui motto potrebbe essere sintetizzato così: “tutti i diritti umani per tutti”. Se ognuno porta il suo piccolo contributo, attraverso cose anche molto semplici come inviare una lettera, essendo tanti abbiamo una grande forza. Ho voluto contribuire prendendomi delle responsabilità in prima persona, sono entrata nel comitato direttivo nel 2004, mi sono candidata nel 2009, e sono diventata Presidente con l’idea di portare un contributo femminile. A volte è difficile trovare candidate, perchè come donne abbiamo responsabilità in molti campi. Non è facile trovare il tempo e le energie per impegnarsi in un ruolo politico. Da parte mia, che sono una donna normale, ho sentito la responsabilità di far vedere che si può fare.
Guardando la situazione mondiale, dal Nordafrica, alla Birmania solo per fare due esempi, con le nuove rivoluzioni, le dittature, le proteste, i movimenti… Che effetti possono avere gli avvenimenti di questi giorni rispetto ai diritti umani?
Quello che abbiamo visto in queste settimane ha un grandissimo fascino per noi attiviste e attivisti di Amnesty. Ovviamente denunciamo le gravi violazioni commesse su manifestanti pacifici, maltrattati o uccisi. Ma il fermento di libertà, il coraggio di manifestare per i diritti in questi paesi, da cui non ci si aspettava che andassero verso la democrazia, perchè eravamo abituati a vedere i governi reprimere la libertà di espressione e di associazione, questo fermento di libertà è la dimostrazione che qualcosa sta cambiando, Questo contagio che si trasmette da un paese all’altro grazie ai giovani, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione e informazione, che coinvolge anche molte donne in paesi dove i diritti delle donne sono spesso fortemente violati, sono di stimolo per azioni politiche nuove.
Queste piazze fanno ripensare all’89, a Budapest, Berlino e Bucarest - e purtroppo anche alla Cina di Tienanmen; ora siamo con il fiato sospeso, mentre si sta sviluppando un’escalation di violenza in Libia. Però speriamo che dalla Tunisia all’Egitto, come nell’89 in Europa, prevalga quel sentimento di libertà che ha fatto crollare il Muro di Berlino. È una stagione storica in cui c’è una grande responsabilità dell’Europa. Allora ebbe un ruolo positivo di aiuto e sostegno concreto, ed è questo che occorre ora in Nordafrica. Non serve creare paure inutili dicendo che arriverà un flusso di rifugiati, ma serve intanto agire sull’emergenza umanitaria, attrezzarci per aiutare e accogliere con dignità le persone. Contemporaneamente, aiutare questi paesi a costruire istituzioni democratiche e possibilità economiche, perché i conflitti nascono dove non vengono rispettati i diritti umani: i diritti civili e politici ma anche quelli economici e sociali. L’Europa ha il dovere e l’interesse che questi paesi possano godere di uno sviluppo pacifico, perché creare barriere culturali non aiuta a costruire un rispetto reciproco. Non serve reagire pensando solo alla sicurezza e alla difesa di una fortezza fatta anche di privilegi - Dobbiamo reagire pensando ai diritti universali per aiutare a costruire un mondo migliore.
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“Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: ‘Meglio accendere una candela che maledire l'oscurità’. Questo è anche oggi il motto per noi di Amnesty.” (Peter Benenson, fondatore di Amnesty International)
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GRAZIE AMNESTY
alcuni messaggi di ringraziamento di persone liberate
"La solidarietà che abbiamo ricevuto da centinaia di associazioni femminili, organizzazioni per i diritti umani e da singoli uomini e singole donne che hanno a cuore la giustizia, è stata decisiva per costringere la pubblica accusa a fare un passo indietro. È chiaro che questo atteggiamento illegale e arrogante delle autorità del Nicaragua potrà continuare. Ma vogliamo che sappiate che, anche di fronte a minacce, ricatti e intimidazioni, le nostre parole non saranno ridotte al silenzio. Alle nostre famiglie, alle nostre colleghe, ad Amnesty International.... grazie! Continueremo a lottare per difendere i diritti umani delle donne del Nicaragua con ancora più determinazione e impegno."
(Otto attiviste per i diritti sessuali e riproduttivi delle donne del Nicaragua. Il 28 aprile 2010, grazie a un'imponente mobilitazione internazionale, l'Ufficio del procuratore generale ha deciso di archiviare una denuncia presentata contro di loro da gruppi conservatori molto influenti nel paese e legati al governo).
“Vi ringrazio per quello che state facendo per mio figlio. Non me lo fanno vedere. Vorrei incontrarlo per vedere come sta. È un'agonia il fatto che non mi danno notizie su di lui”.
(Il padre di Saber Ragoubi, condannato a morte della Tunisia. Ragoubi è detenuto in isolamento dal 2007, quando è stato giudicato colpevole di reati di terrorismo e contro la sicurezza nazionale, reati di cui si è sempre dichiarato innocente. Il suo processo è stato iniquo e si è basato su una "confessione" estorta con la tortura)
"Desidero ringraziare Amnesty International per tutto il lavoro che fa, non soltanto in Iran, ma in tutti i paesi del mondo in cui i diritti umani sono violati!"
(Mohammad Mostafaei, avvocato, difensore dei diritti umani costretto a lasciare l'Iran nel 2010 e ospite della Sezione Italiana di Amnesty International nel dicembre 2010. Ha difeso oltre 40 minorenni condannati a morte ed è stato, tra l'altro, avvocato di Sakineh Muhammadi Ashtiani, la donna condannata a morte per adulterio e complicità in omicidio).
"Sono felice per questa sentenza e vi ringrazio per quello che avete fatto. Resto preoccupata per la mia incolumità".
(Ellen Chademana, assistente amministrativa dell'Organizzazione non governativa "Gay e lesbiche dello Zimbabwe". Il 16 dicembre 2010 un tribunale della capitale Harare l'ha assolta dall'accusa di "possesso di materiale pornografico". Chademana era stata arrestata nel maggio 2010 nel corso di un raid effettuato dalla polizia nella sede dell'associazione. Dopo sei giorni di carcere, era stata rilasciata su cauzione in attesa del processo).
"Ho visto coi miei occhi quanto le vittime delle violazioni dei diritti umani in Darfur e in altre zone del paese apprezzino e comprendano davvero il lavoro di Amnesty International. Continuate ad agire per chi non può far sentire la sua voce e, ricordate, la giustizia può farsi attendere ma un giorno l'otterremo. La strada può essere lunga ma dobbiamo lottare per la giustizia!”
(Ali Agam, avvocato sudanese del Centro per i diritti umani e lo sviluppo dell'ambiente. In esilio a Londra, lavora attualmente al Centro africano di studi per la giustizia e la pace)
"Grazie per esservi occupati di me!"
(Zahra Salih, attivista del Movimento del Sud, un'organizzazione che chiede la fine della discriminazione nei confronti delle popolazioni meridionali dello Yemen, rilasciata l'11 gennaio 2011. Era stata arrestata l'8 novembre 2010 e da allora era stata trattenuta in isolamento nella sede del Dipartimento per le indagini criminali di Aden. Dall'inizio delle proteste, nel 2007, il governo ha ucciso decine di manifestanti e ha arrestato migliaia di persone, tra promotori e partecipanti alle proteste pacifiche).
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IL 28 MAGGIO 1961, CON LA PUBBLICAZIONE DI QUESTO APPELLO SULLA PRIMA PAGINA DELL’OBSERVER, NACQUE AMNESTY INTERNATIONAL
"Aprite il vostro quotidiano un qualsiasi giorno della settimana e troverete la notizia di qualcuno, da qualche parte del mondo, che è stato imprigionato, torturato o ucciso poiché le sue opinioni e la sua religione sono inaccettabili per il suo governo. Ci sono milioni di persone in prigione in queste condizioni, sempre in aumento. Il lettore del quotidiano percepisce un fastidioso senso d’impotenza. Ma se questi sentimenti di disgusto ovunque nel mondo potessero essere uniti in un’azione comune qualcosa di efficace potrebbe essere fatto”.
Peter Benenson," I prigionieri dimenticati", The Observer, 28 maggio 1961
L'elemento catalizzatore fu lo sdegno di Peter Benenson per la notizia dell’arresto di due studenti che avevano brindato alla libertà delle colonie portoghesi in un bar di Lisbona. E per questo unico “crimine”, il governo li aveva condannati a ben sette anni di prigione.
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