Bolivia - Salute, aborto, contraccezione, violenza sessissta: le boliviane lottano unite per i loro diritti. Insieme al presidente Evo Morales
Di Pietro Maria Elisa Domenica, 22/09/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2013
In Bolivia dicono che poco è peggio di essere donna, indigena e povera. Casimira Rodríguez Romero era tutte e tre insieme. Il suo ingresso nell’arena politica fu sbaloriditivo: divenne Ministao di Giustizia e Diritti Umani nel 2006, a 46 anni, la prima quechua ad una così alta carica. Un giornalista insolente le chiese cosa potesse sapere di giustizia. Lei rispose:“Non so niente di giustizia, ma tutto d’ingiustizia”. Ne aveva vissuta ogni forma: discriminazione, diseguaglianza, esclusione. A 13 anni fu rapita da un villaggio andino e portata in città come cameriera per un tavolo e un letto. Rivendicò la paga, ma fu gettata in strada. La rabbia alimentò il riscatto: da serva a cofondatrice del sindacato di lavoratori domestici, a 41 anni era segretaria generale della confederazione sudamericana e caraibica per rappresentarne 11 milioni.
Il termine chola e il diminutivo cholita, coniati per stigmatizzare donne nate dall’unione tra coloni e indigene, oggi indicano uno status ambito, sinonimo di donna intraprendente dalle solide radici native, orgogliosa di esibire abiti e pettinatura un tempo imposti dai conquistadores. A La Paz il concorso di Miss Cholita, antagonista di Miss Bolivia, premia l’estetica ma onora anche la cultura d’origine, richiede la conoscenza della lingua nativa e l’uso abituale del costume tipico: bombin originale Borsalino, lunga manta sfrangiata e pollera, la gonna con sottogonne a balze arcobaleno multistrato. C’è anche il titolo speciale Miss de ñeque, che nel gergo comune qualifica la forza e il coraggio delle aymará. Le ragazze risparmiano fino all’osso per la farfalla da appuntare alla bombetta come distintivo: può costare 400 dollari, cifra proibitiva per un reddito pro capite medio di 970 l’anno. È un simbolo di femminilità, ma anche di libertà, realizzazione, metamorfosi e rinascita conquistate con provate capacità.
Carmen Rosa ce l’ha e la sfoggia col cinturone d’oro che l’ha resa un’icona col motto “Eleganza e distinzione”. Pioniera e campionessa mondiale di lotta libera, solo maschile fino al 2003, sfoggia abiti tradizionali anche durante i match. Mentre sfarfalla sulla piattaforma da una corda all’altra, fa ruotare la gonna e acceca l’avversario, lo frusta con le trecce e lo calcia con le scarpe. Ha vinto il round più importante quando il marito le ha posto l’aut aut famiglia/lavoro, è vicepresidente di un partito e si candiderà alle elezioni nel 2014. Mamachas del Ring - epiteto popolare delle lottatrici - è anche un film che racconta le sfide incrociate e su più fronti che affrontano dal 2006, da quando si battono anche contro gli uomini. La lotta è il loro modo di vivere, in reazione al machismo e al patriarcato che le soffoca. Rinnegano le decisioni familiari che le relegano a casa, s’inventano un mestiere e rivendicano la partecipazione all’economia e alla politica. A La Paz la vita è difficile: di giorno madri, mogli, casalinghe, innocue e bonarie venditrici ambulanti o cuoche; di notte e nel weekend lottatrici agguerrite, impegnate in allenamenti e incontri. La capitale più alta del mondo (3650 m s.l.m.) dispensa denaro e calore in misura inversamente proporzionale all’altitudine, con variazioni di 7-10°C tra El Alto, città-quartiere di baracche e fango sull’altipiano, e la lussuosa zona residenziale più in basso.
In politica le donne riscuotono fiducia e dialogano svincolate da etnia, ceto e religione di appartenenza anche su temi delicati e controversi (salute, diritti sessuali, aborto, contraccezione). Eclatante il risultato elettorale del 2009: 46 parlamentari elette (28% di seggi contro la media mondiale di 19,4%). Impresa impossibile senza Evo Morales, primo presidente nativo dal 2005, e la Coordinatora della Mujer, organismo-lobby che riunisce le associazioni e i movimenti femminili esercitando pressione sulle istituzioni. La maggioranza della popolazione, oltre 60% nativi, ha avviato una rivoluzione democratica, che procede parimenti alla valorizzazione di origini e tradizioni. Dal 2009 la nuova Costituzione riconosce 36 etnie, i diritti dei nativi e delle donne, compresi proprietà, quote rosa e principio dell’alternanza di genere nelle cariche.
I risultati sono tangibili: la Bolivia è il paese latinoamericano che ha registrato maggiori progressi, perciò quest’anno è entrato tra i paesi a medio sviluppo umano. Nella classifica generale condivide con la Mongolia il 108° posto su 186 per aver puntato su donne, salute, istruzione.
El Día de la Madre (27 maggio) non è una semplice ricorrenza in onore delle madri, ma per legge è festa nazionale. Celebra le eroine di Chochabamba che si armarono contro l’esercito spagnolo in l’assenza degli uomini, morti o lontani, arruolati nelle forze indipendentiste. Le cochabambine di oggi non sono da meno: organizzate in gruppi autogestiti rivendicano strutture sanitarie, fognature, acqua potabile, promuovono istruzione e formazione, corsi di empowerment e leadership. La madre è una figura centrale: è diffusa la famiglia matrilocale e monoparentale di una donna sola con uno o più figli, vedova o senza compagno. Priva di reddito o con entrate sufficienti al minimo vitale, se non ha parenti maschi vive di elemosina e sussidi. Per completare il programma di sostegno a maternità e infanzia il governo ha istituito un bonus da erogare in 33 mesi (dalla gestazione ai 2 anni del bambino) a chi è privo di assistenza e assicurazione, per favorire controlli e assistenza sanitaria pre e postnatale. In 5 anni l’incentivo ha contribuito a ridurre i tassi di malnutrizione cronica (dall’86 al 43%) e mortalità infantile (dal 51 al 46‰ di nati vivi), ad aumentare l’assistenza a gravidanza e parto in ospedali e centri di sanità pubblica (dal 55% al 77%).
Restano dati tragici che impongono impegno e sfide. Dal 2013 la Bolivia è il paese latinoamericano col più alto tasso di violenza fisica contro le donne, secondo per violenza sessuale dopo Haiti. Ogni conquista legale in materia ha una vittima. Nel 2012 l’assassinio di Juana Quispe Apaza, da anni bersaglio di minacce e ostruzionismo come consigliera comunale di Ancoraimes (100 km. da La Paz), ha convinto ad approvare in un mese la legge contro le molestie e la violenza alle donne in politica, dopo 13mila denunce formali di casi analoghi e un iter decennale al quale la leader stessa aveva partecipato. L’urgenza di stanziare i fondi per attuare le norme è riemersa quest’anno a giugno, per l’ennesimo episodio: Jenny Fernández, sindaco a La Guardia, presso Santa Cruz, è stata aggredita brutalmente al settimo mese di gravidanza per costringerla alle dimissioni. La cadenza dei delitti contro le donne del 2012 è 1 ogni 3 giorni, perciò alla morte di Hanalì Huaycho Hannover, giornalista televisiva accoltellata dal marito davanti al figlioletto nel febbraio scorso, in 6 giorni è stata approvata d’urgenza la legge che punisce il femminicidio con 30 anni di reclusione, con divieto di amnistia o indulto, finora la pena più grave del codice penale boliviano.
In molte zone dell’America Latina i ragazzi risultano svantaggiati nelle scuole secondarie e all’università. Anche le boliviane stanno invertendo gli indicatori di genere: lavorano, si pagano gli studi, diventano attiviste, insegnanti, giornaliste, leader politiche. Il futuro del paese è in mano a queste giovani determinate, fiere di dichiararsi cholitas femministe e adottare l’uniforme tradizionale a casa come in pubblico, per la strada, in televisione, al parlamento e persino sul ring.
Lascia un Commento