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#BLADERUNNER2049

#BLADERUNNER2049

Recensioni amatoriali da un punto di vista di genere #identità #alterità

Domenica, 08/10/2017 - E' andata: BLADE RUNNER 2049, diretto da Denis Villeneuve e prodotto da Ridley Scott è nei cinema. Si tratta del sequel del cult movie del 1982 tratto dal romanzo di fantascienza di Philip K. Dick “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” . Quel film è considerato un capolavoro e non c'è alcun motivo per non essere d'accordo.



Si capisce che c’è da farsi tremare le vene per l’inevitabile paragone. Quindi affrontiamo subito la questione: il film tiene.



Il registro è del tutto diverso ed -evitando di rivelare dettagli del plot- i ritmi, le immagini e la narrazione sono decisamente più “distesi”; c’è una “pulizia” ed una nitidezza sconosciuti al “vecchio Blade Runner” che veicolava contenuti attraverso la forza evocativa delle immagini e delle atmosfere.

Era un film “sporco” e denso che riusciva a mettere in contatto il pubblico con i conflitti ed i drammi dei personaggi senza spiegare troppo. Il riconoscimento, identità, alterità...ci si trovava dentro le tematiche “senza passare per il via” della logica lineare. Non aveva importanza. Il dramma era al centro, si trattava di partecipare alla vicenda umana delle e dei replicanti e delle persone coinvolte. Il resto contorno.

Nella versione 2049 invece si svolge tutto in un percorso lineare, passo per passo. Siamo ancora in quel mondo lì con i dovuti aggiornamenti ed upgrade; c’è coerenza e continuità con ambiente e atmosfere che nonostante un make-up più “fresco” e definito, rimangono centrali ma non affabulano. I riferimenti al vecchio Blade Runner abbondano, alcuni elementi vengono ripresi in modo puntuale e rinnovati (come ad esempio la presenza di un pianoforte che in entrambi i casi raccorda storie e suggerisce riflessioni).

Momenti di una teatralità densa e cadenzata (come ad esempio tutto l’incontro nella parte iniziale) si giustappongono ed a volte si intrecciano con altri di una semplicità descrittiva e asciutta ed in certi momenti anche disturbante, come un corpo fremente caduto in terra. Il film respira grazie al lavoro magistrale di Roger Deakins. Le/gli interpreti fanno bene il loro lavoro, il cast è ottimo a partire da Ryan Gosling (interprete versatile che apprezzo molto a partire da “Lars e una ragazza tutta sua”) fino al sacrificato Jared Leto. Però, nonostante i circa 160 minuti di proiezione, si sente la mancanza di qualcosa. Alla fine il drama c’è nella storia, lo capiamo cognitivamente lo seguiamo ma di fatto non lo sentiamo.

L’ impianto narrativo funziona e non solo: ci sono svolte, twist e sottotrame intriganti e più che promettenti tra incontri e scontri di tutto rispetto. C’è una storia che si fa seguire con interesse, ma Fancher e Green sembrano si attengano al minimo sindacale, sembrano dire: "manteniamo confini precisi meglio non osare". Che ha anche senso.



Il film c’è, è ben fatto e, rispetto alle aspettative, non delude o tradisce chi ha vissuto la passione di Roy, Rachael, Pris, Deckard, J.F. Sebastian (& co.) ma non arriva addosso con la stessa forza poetica del Blade Runner d’annata.

Manca sostanza. Forse semplicemente sarebbe chiedere troppo.

I personaggi convincono con tutta la loro dignità, ma è come se fossero solo accennati i tratti salienti, sono spunti: sappiamo e vediamo, ma -salvo qualche raro momento- non viviamo. Peccato. In un certo senso la figura del cane nero è quella che ha più carisma ai fini del nocciolo della questione, “chiediamolo a lui” in ossequio a pecore e capre mancanti.



Purtroppo da un punto di vista di genere, nonostante siano rispettate le quote rosa come dovuto, ci troviamo a registrare che anche nel futuro-futuro, l’immaginario di riferimento è sempre quello etero-normato e patriarcale. Non credo ci sia bisogno di dare ulteriori dettagli, chi andrà vedrà e non troverà molto da discutere.

Mi hanno incuriosito le grandi sculture che appaiono ad un certo punto. Le ho trovate del tutto superflue e ridondanti. Perchè sono lì? Soprattutto perchè quel soggetto? Anche meno ho pensato con un un malcelato sospiro di noia. Quindi, sappiatelo, si faccia la tara prima di andare.

Nel solco della vecchia tradizione (Zhora, Pris) ci sono sicuramente caratteri “femminili” forti, pieni di risorse e determinati, ognuna per i propri scopi e desideri, ma non bastano a nascondere il target maschile a cui si fa riferimento. Robin Wright, Sylvia Hoeks, Carla Juri, Ana de Armas e Mackenzie Davis interpretano tutte in modo compiuto personaggi che meriterebbero approfondimenti; in alcuni casi assistiamo ad incontri che potrebbero dire molto di più oppure che, nel ritaglio di minutaggio concesso, riescono a esprimere molto (ad esempio la tempra di Madame che si staglia dallo sfondo con una nitidezza estrema). Peccato la marginalità a cui sono confinate loro ed in genere un pò tutti i personaggi.



In sintesi:

1-Non tradisce ma non entusiasma

2-Molto più che godibile dal punto di vista della fotografia

3-Non passa il Bechdel test

4-Rimane incastrato nell’immaginario etero-normato a target “maschile” (si dice patriarcale in effetti, ma ogni tanto diciamolo in altri modi)



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