Martedi, 23/03/2010 - La mia età è essenzialmente il tempo di dare un corpo unico ai desideri, vecchi e nuovi.
Il tempo di dar loro un posto nel mondo senza più chiedersi se ne hanno il diritto.
Servono. A me.
Provengo da un lungo apprendistato alla scrittura e alla lettura non legato esclusivamente al mondo dei libri, anzi.
Ho studiato i meccanismi stessi della creatività narrativa, del pensiero che inventa storie.
Mi sono formata sulla lettura saggistica accumulando articoli e resoconti di sperimentazioni, molto spesso non italiane.
Ho avuto la fortuna di vivere la mia giovinezza di studiosa in un'epoca capace di immaginare l'altrove, al di fuori del qui ristretto dei bisogni immediati, della tecnologia spicciola d'uso quotidiano.
Ho respirato l'idealismo della ricerca degli universali, quelli linguistici e matematici.
Sono stata testimone, solo per coincidenza anagrafica, dell'era dell'Intelligenza artificiale, dei primi balbettamenti dell'informatica umanistica.
Non c'era Internet nella mia giovinezza e i primi computer si chiamavano Commodore 64 e usavano il Basic. I calcolatori potenti erano grandi, rumorosi.
Tra me e lo scenario di “A come Andromeda” (lo sceneggiato) c'era solo il colore come differenza..
La passione dei pionieri.
Erano gli anni 80.
Il laboratorio che condividevo con i miei amici uomini: un letterato intellettuale e un giovane ingegnere, era una cucina.
Qualcuno dovrebbe scrivere la storia dei luoghi dove nascono le idee, dove le persone scambiano le forme del piacere e della conoscenza. E ridono, insieme, della bellezza stessa del pensare.
Quella cucina ha rappresentato per ognuno di noi il luogo magico delle origini di una passione, lunga, tenace, che ha dato una rotta alle nostre vite.
Io amavo le fiabe e i gialli: smontavo le storie per cercare modelli e regole alla ricerca del Grande Modello dell'Invenzione.
Paolo amava i linguaggi di programmazione, i circuiti logici, i sistemi inferenziali, quella magia del “se...allora” che la macchina capiva perfettamente e che io mi affannavo a ricordargli che era un'idea di Aristotele.
Giuseppe, beh: lui era l'incarnazione stessa dell'evoluzione della Letteratura in Scienza del testo.
Pensammo insieme. Qualcosa che accade raramente tra gli umani.
Nessuno di noi rivendicava mai la proprietà dell'intuizione o del passaggio logico che avrebbe risolto ogni problema.
Non ci univa solo un interesse teorico, ma una sotterranea radice di umiltà e di ambizione che ci rendeva pari. La passione condivisa fonda la democrazia delle intelligenze.
Creammo un sistema automatico di invenzione delle fiabe.
Creammo un sistema di analisi e modellizzazione delle storie che poggiava su reti semantiche e che perfezionato ed esteso fu in grado anche di “comprendere” le logiche inventive di testi complessi, testi di Genere, come i gialli, ma anche novelle d'Autore come quelle di Pirandello.
Credo che all'Università La sapienza, in qualche scantinato, esistano ancora i grossi modelli IBM con i nostri dati dentro, sui dischi flessibili e so che qualche studente ancora si cimenta a sviluppare Tesi su quei risultati. Sulle idee, no. Peccato.
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Archeologia.
L'avvento di una trasformazione che rivoluzionò i confini tra scienze letterarie e scienze logico-informatiche.
Oggi, archeologia.
Il guaio è che sempre il mondo scambia l'evoluzione delle idee come una tensione in linea retta che sospende le cose passate e le fa morire, come un ramo secco, anche quando la loro pienezza è ancora lontana dall'esaurirsi, dall'aver detto tutto quello che poteva dire. Peccato.
Il guaio è che la tensione del progresso quando entra in gioco, prepotente, “sorella tecnologia”, si muove nell'ottica del superamento e non della continuità, e allora “il prima” coincide con “il vecchio e il sorpassato” e non come la base ancora da esplorare e conservare per generare il nuovo, il “dopo” .
La lentezza o ponderatezza delle strategie cognitive, ahimé, è sorella minore e disgraziata.
Questo è un mondo (con la sua stolta ideologia del progresso) che preferisce i prodotti al pensiero.
“Quando avremo tempo riprenderemo quella ricerca” – così ci consoliamo io e Paolo, a volte.
E ci assale la rabbia (siamo entrambi temperamenti irascibili) per un sapere ignorato o mal-compreso in questa corsa folle all'egemonia del prodotto o del nuovo modello da imporre senza più alcuna accortezza per la lentezza del pensiero che inventa, senza più alcuna attenzione per la bellezza dello scoprire.
Scoprire non è trovare il nuovo: l'oggetto che non c'era.
Scoprire è vedere le stesse cose con occhi diversi.
E' un modo di pensare.
L'invenzione e la cosa inventata non appartengono al medesimo registro di valore della conoscenza.
Il fare non è meno importante del prodotto.
La scintilla pura dell'invenzione è fonte di piacere e nell'oggetto inventato - il prodotto - c'è solo il riverbero delle possibilità infinite del pensiero di avere un corpo, uno tra i possibili.
Nel pensato che prende un corpo c'è la promessa di un discorso non la sua fine, non il suo consumo.
Io non mi capacito che all'Università, oggi, continuino ad assegnare testi e studi sui prodotti di allora senza farsi due domande sul pensiero e le teorie che li hanno creati e che ancora, a ripensarli, creerebbero un mondo.
Peccato.
In quel lungo passato avevamo insegnato a un calcolatore a inventare storie.
E lui ci aveva ricambiato rivelando le falle dei nostri ragionamenti: usavamo troppi impliciti. Inventare era sapere esplicitare i meccanismi, era saper individuare ingredienti e poi inventariare regole di produzione.
Ottenevamo a poco a poco i rudimenti di una grammatica della fantasia.
Io mi divertivo.
Il calcolatore sfornava storie fantastiche che riprendevano come modelli di produzione infinita la storia di Cenerentola (con tutte le sue trame di cambiamento) o la storia di Pollicino (con tutte le sue trame di ritorno a casa).
Sui Gialli scoprimmo insieme, noi e la macchina, che qualsiasi oggetto traslocato dal suo contesto funzionale primario poteva diventare “altro”: insomma la metafora era spesso alla base di ogni invenzione e noi, insieme, potevamo vedere cosa accadeva alle storie che la prendevano alla lettera o a quelle che ne creavano in abbondanza lungo percorsi associativi che sembravano infiniti.
In tanti modi in questo mondo delle storie alla base c'era sempre una sotto-struttura mitica di dei e di ferite sociali.
“Il dio che infligge la ferita è anche il dio che indica la cura”- come dice Hillman.
Ho lasciato la carriera universitaria di ricercatrice, poi quella di docente, insomma, il mondo accademico. Che fa del pensiero una merce astratta di autorepliche.
Ho cercato nel mondo pratico delle aziende un'eco del Fare e mi sono scontrata con la logica della produzione in serie.
Ho cercato allora strade ai margini.
Non più calcolatori, che intanto diventavano Pc portatili, né splendidi sistemi inferenziali sostituiti dalla falsa intelligenza degli ipertesti multimediali.
Ma la mente umana.
Ho cercato nel desiderio delle persone quella poetica del fare che non muore nel fatto.
Seguendo i desideri e la voglia di raccontare che abita il cuore della gente.
Diari che diventano esemplari; vissuti che si travestono in storie fantastiche.
Ma non scritture piuttosto lo scrivere: l'atto nel suo farsi, il punto in cui emergono le idee, il punto in cui una struttura si delinea e sorregge e trasforma l'idea in un percorso testuale.
L'attenzione al testo, alla lettura come processo di scoperta delle regole e del modo di proiettare vissuti ed esperienze nelle trame, negli spazi bianchi di una storia. Scritta da altri.
Le due facce: perché scrivere è saper leggere. I libri come il mondo.
Perché leggere è saper riscrivere la propria storia.
E vedersi in faccia.
Ho scritto un libro che non è teoria né grammatica. Un libro-niente di tutto questo.
Un racconto sulla lettura, i suoi mondi e i suoi modi.
Un incrocio tra pensieri personali ed esperienze tratte da questi anni.
Ma la voglia del fare con gli altri è più forte di un esercizio solitario di scrittura.
E allora mi sono chiesta come costruire un'esperienza in cui riversare un po' di logica imparata dalla e con la macchina e un po' di fantasia del pensiero associativo della gente, che avevo raccolto e conservato, preziosa.
Un'esperienza che usasse scrittura e lettura insieme, in cui chi guida sia anche guidato, in cui il “fare” sia il nodo centrale di un riflettere e di un confronto molteplice e anche una tensione mirata, personale: un progetto.
Un laboratorio di assistenza allo scrivere e al leggere. Insieme.
Dall'idea al testo, in tutte le sue fasi.
Provando, ancora prima di scrivere, la validità di quell'idea narrativa.
Provando, ancora prima di scrivere, il confronto con gli altri, chiamati ad essere lettori di un testo che ancora non c'è.
Perché progettare è un piacere cognitivo ed emotivo che non si esaurisce e muore nel suo prodotto.
I possibili che spalanca, se percepiti e resi consapevoli, costruiranno lo spessore e la densità stessa del prodotto. Ma lo supereranno.
Le idee provengono da un immaginario fatto di vissuti personali e collettivi.
Ascoltare la propria idea nel commento di un altro è un modo di trovare nello specchio “l'immagine del proprio redentore” e salvarsi dall'autobiografismo, dalla limitatezza presuntuosa del proprio esibizionismo.
L'Altro non è il lettore finale di cui non vedremo mai la faccia, e che idealizziamo convinti che “sia come noi”, ma è qui, già con noi: il compagno che ci ascolta mentre costruiamo la nostra storia.
Mentre. Non dopo.
Una follia.
Il 30 marzo verso le ore 19.00 circa, in un luogo bellissimo, nel centro storico di Roma, vorrei raccontarvi questa avventura: The Writing Coaching, un laboratorio/percorso per chi forse rinuncerà a pubblicare un libro, ma avrà imparato a servirsi della scrittura.
vicolo Savelli 9 -Gb EditoriA - ingresso libero
Ovviamente, anche questo è un progetto sostenuto da Donne di carta.
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