PARLIAMO DI BIOETICA - E’ proprio la capacità della scienza e della tecnologia di ritardare indefinitamente la morte a far nascere la richiesta di riprendere possesso della propria vita
Battaglia Luisella Lunedi, 24/10/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2011
A conclusione di anni di dibattiti, di battaglie parlamentari, di scontri ideologici verrà votata una legge sul biotestamento che rappresenta, per molti aspetti, un’occasione mancata. Vediamo di chiarire in che senso.
La nascita della bioetica, negli anni 70, ha posto al centro del dibattito le cosiddette questioni di entrata e uscita dalla vita, stimolando una progressiva presa di coscienza nei confronti dei problemi connessi al morire. E’ infatti proprio la capacità della scienza e della tecnologia di ritardare indefinitamente la morte a far nascere la richiesta di riprendere possesso della propria vita. A questa esigenza ha inteso rispondere il testamento biologico, un documento con cui una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non sia più in grado di esprimere il suo consenso. Al centro del biotestamento è dunque l’affermazione del principio di autonomia che sancisce il diritto della persona di decidere in merito ai trattamenti medici e quindi anche di rifiutarli, se non corrispondono ai suoi valori .Che cosa è rimasto di questo impianto originario nella legge in discussione?
Praticamente nulla, visto che essa prevede – per limitarci ai punti più qualificanti– che le volontà espresse dal paziente non siano vincolanti per il medico curante, che non ci sia possibilità di indicare quali cure si intendano rifiutare e che alimentazione e idratazione artificiali vadano comunque somministrate. Che ne è, verrebbe amaramente da chiedersi, di quel principio di autonomia che si traduce nel diritto all’autodeterminazione e che gioca un ruolo rilevante nell’idea moderna della dignità umana? Qual è il destino della libertà individuale in un paese che nega ai suoi cittadini la libertà più elementare: quella di scegliere? Può il nostro stato definirsi ancora liberale o siamo soggetti ad una ‘polizia morale’ – per citare John S. Mill – che pretende di farci vivere sotto l’ombra protettiva del paternalismo etico? Ancora una volta, come nel caso della legge 40 sulla fecondazione assistita, il legislatore appare vincolato ad una ben precisa concezione morale che ispira unilateralmente la sua azione. Il principio cardine intorno a cui ruota la legge sul biotestamento è infatti quello della indisponibilità della vita umana, che poggia sull’affermazione della vita come dono divino di cui l’uomo non può disporre, tesi cui si è soliti contrapporre l’altra, secondo cui la vita è un bene a disposizione dell’individuo. Quale delle due affermazioni è più fondata? Potremmo elaborare una serie sterminata di argomenti a sostegno dell’una e dell’altra, il che dovrebbe quanto meno consigliare al legislatore di non assumere una tesi come verità apodittica e soprattutto di non fondare su di essa il suo intero impianto legislativo. Quella dell’indisponibilità della vita contiene, peraltro, non poche ambiguità, dal momento che posso ritenere, senza contraddirmi, che la vita sia un valore ‘indisponibile’ per gli altri – nel senso che nessuno può arrogarsi il diritto di deciderne il valore in base, ad es., a parametri di utilità sociale-- ma che sia ‘disponibile’ per me, aperta a tutte le possibilità che ritengo umanamente significative. All’interno di uno stato liberale dovrebbe essere garantito il diritto sia di chi sostiene la tesi della vita come dono sia di chi afferma la tesi della vita come proprietà. Che è quanto appunto avrebbe dovuto assicurare il biotestamento da intendersi, come negli altri paesi Europei, come uno strumento giuridico aperto e flessibile, idoneo a regolare situazioni eticamente controverse relative alla libertà dell’individuo rispetto al potere medico e a garantire i valori di autonomia e di dignità della persona.
In Germania esistono, dal 1999, le cosiddette “Disposizioni del paziente cristiano”, elaborate dalla Conferenza episcopale tedesca e dalla Comunità delle chiese cristiane che prevedono la possibilità per chi le sottoscrive di richiedere il non inizio o l’interruzione di trattamenti come la nutrizione artificiale, la respirazione assistita etc. quando “ogni terapia prolungherebbe solo il processo del morire”. Una sobria lezione di civiltà che fa ulteriormente risaltare l’asprezza dello scontro ideologico che ha accompagnato l’iter della legge.
Quella che doveva essere una legge civile, intesa a consentire a ciascuno il diritto di poter decidere della fine dignitosa della propria vita, è diventata un caotico puzzle di norme e di divieti che, oltre a ledere il principio di autonomia, costituzionalmente garantito, appaiono in stridente contrasto con la Convenzione di Oviedo (1997) e con lo stesso Codice di deontologia medica in cui si ribadisce che “il medico non può non tener conto delle eventuali dichiarazioni di volontà precedentemente espresse”. Un’occasione mancata, si è detto, per la politica che si rivela incapace di realizzare un incontro tra piano istituzionale ed esistenza umana e di mostrarsi sensibile alle richieste personali degli individui e ai loro bisogni più profondi.
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