Parliamo di Bioetica - In Europa esistono ‘città di transizione’, comunità che decidono di riconvertire le attività di produzione e di consumo verso forme sempre più indipendenti dai combustibili fossili
Battaglia Luisella Lunedi, 05/09/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2011
Cosa ci aspettiamo da una città? Le ‘sette o settantasette meraviglie da godere’ di cui parlava Italo Calvino, o piuttosto, come infine suggeriva, ‘la risposta che sa dare a una tua domanda’? Oggi siamo chiamati a riflettere sulle capacità attuali delle nostre città di rispondere alla domanda davvero cruciale del ‘ben vivere’. Per questo occorre pensare alla città nelle sue diverse dimensioni: quella dello spazio pubblico, luogo di appartenenza che rende visibile il patto, implicito ma reale, di solidarietà che la fonda, quella ecologica, che rappresenta la tutela di quei beni comuni - l’aria, l’acqua, il paesaggio - che sono altrettanti diritti fondamentali su cui la pura logica di mercato incide sempre più fortemente e quella della salute, che riguarda il nostro patrimonio più prezioso e che coinvolge direttamente scelte di politica economica e questioni di giustizia sociale. Si tratta di grandi sfide che si giocano, certo, a livello politico ma che interpellano tutti noi: per questo la bioetica, che significa appunto ‘etica della vita’, impegnata a discutere sui problemi del ben vivere quotidiano, è chiamata in causa. Stiamo diventando sempre più consapevoli dell’intreccio tra beni comuni e diritti e responsabilità di cittadinanza e avvertiamo drammaticamente che le città stanno perdendo la capacità di fare la ‘società civile’ e di incorporare le diversità di ceto, di cultura, di religione e di etnia. Per questo dovremmo sentirci impegnati a progettare il nostro futuro in termini di sostenibilità economica, politica, sociale e ambientale: siamo infatti diventati, per la prima volta nella storia, una ‘razza urbana’ e quindi l’impatto sulla vita delle persone di ciò che si fa o non si fa nelle città risulta decisivo.
Penso, ad esempio, al ‘buen vivir’ di cui parla Serge Latouche ne L’invenzione dell’economia come a un nuovo paradigma di civiltà fondato su una vita in armonia con la natura della quale tutta la comunità è parte: una risposta che, a partire dalla democrazia deliberativa e dalla responsabilizzazione collettiva, si basa su educazione popolare, orizzontalità, giustizia ed ecologia sociale. In Europa ci si può riferire al movimento delle ‘città di transizione’, comunità che decidono di riconvertire le attività di produzione e di consumo verso forme sempre più indipendenti dai combustibili fossili. Le ‘città di transizione’, sorte in Inghilterra ma ormai presenti anche nel nostro paese, sono anche un movimento culturale che ha, tra l’altro, lo scopo di promuovere nuove pianificazioni energetiche e la localizzazione delle risorse di base all’insegna del ‘meno petrolio’, riconfigurando i modelli attraverso i quali si produce e si consuma cibo ed energia, si fa turismo, ci si occupa della salute.
Riforma o rivoluzione? Per rispondere con Arne Naess, siamo dinanzi a un cambiamento di portata rivoluzionaria che avviene attraverso un gran numero di azioni concrete, di scelte individuali, di piccoli passi capaci di condurci in una direzione radicalmente nuova. Sperimentazioni locali, dunque, che anticipano strategicamente le trasformazioni globali e che mobilitano un’energia creativa verso la costruzione di una società del ‘ben vivere’ libera dall’ossessione del consumismo e dal mito della crescita. Gli economisti hanno cominciato a usare il termine felicità al posto del Pil per misurare il benessere delle nazioni - si parla infatti di ‘felicità nazionale lorda’ - nella consapevolezza crescente che, come è stato efficacemente detto, ‘il Pil misura tutto, tranne le cose per cui vale la pena di vivere’. In questo, appunto, risiede il suo paradosso. Molti parametri, infatti, contribuiscono alla felicità, intesa non come uno stato, un fatto strettamente personale, ma come una categoria più ampia di benessere che vada oltre la mera misurazione del reddito. Andare oltre al Pil, per aprire un ponte verso la felicità, significa, dunque, capire che ci sono beni di importanza basilare per la qualità della vita - come la conoscenza, la capacità di comprendere il mondo in cui si vive, i rapporti interpersonali, l’equilibrio con l’ambiente, la partecipazione alla vita sociale, la sicurezza e la solidarietà - che si definiscono ‘immateriali’ proprio perché richiedono meno materia e energia per essere prodotti e riprodotti e la cui diffusione permette di diminuire la pressione sul consumo di cose materiali. Dobbiamo pensare di essere in un mondo interdipendente e avere il coraggio di impostare una gestione condivisa dell’interdipendenza per assicurare la sostenibilità dello sviluppo con giustizia ed equità a tutti i paesi. Una prospettiva ‘conviviale’ che richiama temi largamente presenti nell’idea di cura al centro della riflessione femminista, per il suo insistere sulla necessità del superamento di una visione utilitaristica, nella direzione di un recupero dello spirito del dono e di un’etica della responsabilità per un’umanità intesa ormai come una comunità di destino.
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