Il governo approva un decreto contro l’autodeterminazione delle donne.
Il decreto varato dal Consiglio dei Ministri l'8 agosto 2013, basato su misure “di emergenza” che niente hanno a che fare con una visione della violenza di genere come fenomeno profondamente radicato e strutturale all'interno della società e del contesto italiano, riduce questo problema per l’ennesima volta ad una questione di ordine pubblico e sicurezza.
Il lavoro che Befree (cooperativa sociale contro la tratta, violenze e discriminazioni) svolge quotidianamente con donne sopravvissute alla violenza di genere e alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo ci ha insegnato, al contrario, che la violenza contro le donne ci interroga profondamente sulle relazioni tra i generi, sul potere e le sue dinamiche di sopraffazione; consapevolezza che ci impone di mettere in discussione una cultura che tende a giustificare la violenza di genere, e a sottovalutarne la portata.
Ecco perché una legge che non contempli queste imprescindibili premesse non è una buona legge.
Anzi, è una legge pericolosa, perché intrisa di quegli stessi valori di cui si nutre la violenza di genere che riproducono la visione delle donne come corpi deboli, corpi senza parola, sovradeterminati e incapaci di decidere.
Le donne che si rivolgono ai servizi antiviolenza ci raccontano di un'Italia che non è preparata culturalmente a farsi carico della violenza contro le donne, e a darle il giusto peso. Le leggi che già esistono a tutela delle donne vittime di violenza o di tratta degli esseri umani non vengono applicate a causa di una mentalità, diffusa a più livelli, che tende a sminuire il fenomeno e a colpevolizzare le donne.
La misura prevista dal decreto relativa alla non “revocabilità della querela” è indicativa dell’incapacità di comprendere e affrontare il fenomeno della violenza nella sua complessità. Il problema non è che le donne revocano le denunce sporte; il problema è che le donne non trovano intorno a loro un contesto in grado di supportarle, di prendere una posizione netta contro la violenza, non vengono credute nelle aule dei Tribunali o nei commissariati, non vengono ascoltate nei luoghi che invece sarebbero deputati a supportarle, perdono il lavoro a causa dei maltrattamenti subiti e sono condannate ad una esistenza di povertà.
Prevedere l'irrevocabilità della denuncia per atti persecutori, senza chiedersi perché le donne revochino le denunce, significa concepirle come soggetti incapaci di portare avanti il proprio percorso di liberazione dalla violenza e sovra determinarne le azioni e le decisioni.
Inasprire le pene nel caso in cui la violenza sessuale sia perpetrata ai danni di una donna in stato di gravidanza, sancisce una pericolosa differenza di valore tra le donne non riconoscendole nella loro dignità di persone, a prescindere che diventino madri o meno. Non è uguale per tutte una legge costruita su una logica di sottrazione che legittima e riproduce quella violenza normativa di incasellare la soggettività delle donne nei ruoli e nelle funzioni imposti dalla società.
Inserire all'interno del decreto misure repressive e securitarie che niente hanno a che fare con la lotta contro la violenza di genere significa ancora una volta usare il corpo delle donne strumentalmente, allo scopo di far passare norme restrittive che spengono ogni forma di dissenso.
Significa inoltre considerare la violenza di genere non come un fenomeno specifico, che quindi merita una attenzione esclusiva, ma uno dei tanti “fenomeni delinquenziali divenuti particolarmente acuti”.
Non aver coinvolto nella discussione e nella elaborazione del decreto le associazioni di donne che da anni lottano contro il fenomeno della violenza di genere rappresenta un'occasione persa per la crescita di consapevolezza su questo grave fenomeno, e per la creazione di misure efficaci al suo contrasto.
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