In mostra nell'Osservatorio della Fondazione Prada gli scatti di due fotografe statunitensi, Elena Dorfman e Jamie Diamond, sulle relazioni affettive ed erotiche tra umani e esseri inanimati
Domenica, 05/05/2019 - A Milano l’Osservatorio della Fondazione Prada, all’ultimo piano di uno degli edifici centrali della Galleria Vittorio Emanuele II, ospita fino al 22 luglio 2019 una perturbante mostra fotografica dal titolo "Surrogati. Un amore ideale".
Protagoniste dell’esposizione sono due fotografe statunitensi, Elena Dorfman (Boston, 1965) e Jamie Diamond (Brooklyn, 1983) che da anni, senza conoscersi tra loro, indagano le relazioni affettive ed erotiche che le persone intrattengono con esseri inanimati, ma dalle fattezze umane: bambole sessuali e bambolotti. E’ stata la curatrice della mostra, Melissa Harris, a scorgere un’indubbia affinità nell’opera delle due fotografe, non solo per le tematiche affrontate, ma anche per il modo di trattarle, attraverso uno sguardo non giudicante, libero da pregiudizi. Ha perciò deciso di presentare i loro lavori in una doppia personale che riunisce in tutto una quarantina di fotografie di grande formato. La serie "Forever Mothers" ("Madri per sempre", 2012-18) di Jamie Diamond è stata realizzata presso una comunità di artiste autodidatte, chiamate Reborners, che creano e collezionano bambolotti iperrealistici in silicone o plastica vinilica (detti reborn, rinati) per soddisfare il proprio desiderio di maternità. Realizzano inoltre bambolotti su ordinazione per altre aspiranti mamme e anche per qualche papà. Le fotografie di Jamie Diamond che ritraggono queste madri amorevolmente intente a stringere a sé bambolotti neonati, o ad accudire bambine e bambini che resteranno tali in eterno, sono commoventi, ma anche inquietanti. Quali segreti dolori, quali paure, separazioni, lutti, frustrazioni, insicurezze, solitudini - viene da chiedersi osservando i volti di queste donne - le avranno spinte a dare il proprio amore a dei pupazzi inerti, per quanto realistici? Una domanda analoga sollecitano anche le fotografie di Elena Dorfman, autrice della stupefacente serie "Still Lovers" ("Amanti immobili", 2001-04), dedicata alle sex dolls, le bambole sessuali a grandezza naturale e penetrabili, che un tempo erano di plastica gonfiabile, ma che oggi sono sofisticatissime opere in silicone. Elena Dorfman ha scattato queste fotografie in piccoli centri della provincia americana, nei sobborghi di Londra e a Marsiglia, conquistandosi a poco a poco la fiducia dei proprietari delle bambole e dei loro famigliari. E del resto ciò che le sue immagini raccontano non è l’aspetto più ovvio delle bambole erotiche, ossia quello legato alla sessualità. Piuttosto Elena Dorfman presenta le bambole nel loro vissuto quotidiano, racconta com’è la vita di tutti i giorni accanto a questi simulacri sintetici di donne in carne e ossa. Surrogati umanoidi che, al contrario delle servizievoli e incorporee assistenti vocali sul tipo di Siri o Alexa, non parlano, ma che come loro hanno un nome proprio.
Così, ad esempio, nella fotografia intitolata "Rebecca" si vede un uomo che poggia teneramente la testa sul seno della bambola, quasi a cercare una protezione materna. In "Lily" un uomo sdraiato su un prato, intento a scrivere al computer, ha accanto la sua compagna ideale. In un’altra foto lo stesso uomo ha portato con sé Lily perfino in chiesa, col consenso del parroco. Questi spaccati di vita domestica fanno tornare in mente un celebre episodio narrato da Oskar Kokoschka nella sua autobiografia. Durante la prima guerra mondiale il pittore austriaco era fuori di sé per la fine del suo rapporto con Alma Mahler e commissionò a un’artigiana una bambola di stoffa e segatura a grandezza naturale con le fattezze dell’amata. Per un po’ di tempo visse con questa bambola, detta la "donna silenziosa", le assegnò una cameriera personale, le comprò abiti alla moda, finché un giorno decise che era giunto il momento di farla finita con quella compagna immaginaria. Organizzò allora un grande ricevimento in casa propria durante il quale tutti finirono ubriachi, la bambola fu spruzzata di vino rosso e nella confusione generale se ne smarrì la testa. La mattina dopo il carro della spazzatura se la portò via e con lei - ricorda Kokoschka - "il sogno del ritorno di Euridice. La bambola era un’immagine che nessun Pigmalione poteva riportare in vita".
E’ facile supporre che, almeno in certi casi, anche le bambole e i bambolotti iperrealistici documentati nelle fotografie di Diamond e Dorfman assolvano a una simile funzione terapeutica di "sostituti", alleviando cioè il trauma di un lutto, di un rifiuto o di una separazione, finché la persona non sia nuovamente in grado, come Kokoschka, di affrontare la realtà. Ma l’impulso improvviso di disfarsi del simulacro compare anche nell’irriverente racconto di Tommaso Landolfi intitolato "La moglie di Gogol" (1954). Nella realtà Gogol non è mai stato sposato, ma Landolfi immagina che il suo biografo riveli che Gogol viveva con una donna di gomma gonfiabile. Esasperato dal carattere dispettoso della bambola, un giorno Gogol la gonfia fino a farla scoppiare.
Sembra, dunque, che queste bambole quasi umane siano destinate a fare una fine violenta; fortuna allora che siano solo sostituti di donne vere e non donne in carne ed ossa.
Ma cosa accadrà quando si diffonderanno gli androidi? Avremo dei doveri verso queste bambole robot?
La mostra è accompagnata da una pubblicazione nella serie dei "Quaderni" della Fondazione Prada.
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