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Autorevole, ma invisibile: la debolezza di Giorgia Meloni

Autorevole, ma invisibile: la debolezza di Giorgia Meloni

"... Definendosi il Presidente del Consiglio sì è rimessa, insieme a tutte noi, al posto che il patriarcato le ha assegnato ..."

Martedi, 25/10/2022 -

“Come stai?” Una domanda che oggi, quando la rivolgiamo alle nostre amiche femministe, o quando ci viene rivolta, non può non contenere una allusione alla contingenza e al desiderio di risposte: abbiamo in Italia, da una manciata di giorni, per la prima volta una donna a capo del governo, ma non stiamo facendo gran festa, proprio noi che da decenni abbiamo desiderato, studiato, discusso, lavorato per questo.

Eppure adesso quella nostra simile che campeggia nelle foto alle spalle uomini (spesso) impresentabili e obbligati a stare in secondo piano, o che percorre, con o senza tacchi, tappeti mai solcati da gambe femminili con questo ruolo ci fa provare emozioni discordanti.

Una donna sola al comando’ è il mantra di quasi tutta la stampa, frase che suona diversa e inedita rispetto alla stessa espressione maschile; di certo è inedita perché fin qui al comando ci sono stati soltanto uomini. Ma attenzione: mentre l’abitudine a considerare il potere un affare da maschi ci faceva dare per scontata la solitudine del capo, l’inedito di una donna al comando tocca corde difformi.

Intanto perché nel femminismo la discussione sul potere, (varia, vasta e mai cessata) ha portato a capire che se il potere è solo per una, e non è per tutte, non cambia nulla rispetto al dominio maschile patriarcale nel quale abitiamo da secoli.

Lidia Menapace spiegava che smettendo di considerare la parola potere come sostantivo assoluto, ma pensandola invece come verbo ausiliario l’attenzione, teorica e pratica, sarebbe andata verso l’azione davvero centrale, depotenziando, appunto, l’assolutezza del potere e liberando altri possibili gesti e situazioni.

Donna, vita, libertà gridano, venendo spesso uccise, le iraniane, connettendo la differenza femminile con due concetti chiave che nel dibattito femminista italiano oggi sono oggetto di aspri scontri intellettuali. E nel mentre dentro e fuori le aule universitarie, i circoli, i gruppi e i movimenti ci impegnavamo a discutere se stare dentro o fuori le istituzioni, e a come interpretare i concetti di vita e di libertà Giorgia Meloni si faceva spazio verso la vetta come nessuna a sinistra ha saputo fare, convincendo milioni di donne e uomini a votare per lei e per il suo partito dichiaratamente di destra.

So, per esperienza diretta condivisa con molte altre, quanto difficile sia stato e sia, a sinistra e nel femminismo, pensare a come, e a se, partecipare nello spazio pubblico istituzionale, magari con una formazione politica (perché per eleggere e farsi eleggere abbiamo ancora bisogno dei partiti): nel brevissimo spazio che in Europa si aprì, nel 2014, con la vittoria del partito femminista svedese IF che elesse una sua rappresentante al Parlamento di Strasburgo, alcune in Italia sognammo l’utopia di costruire anche da noi un’esperienza simile. Un’utopia, appunto, che non decollò mai per molte ragioni, tra le quali c’è la tendenza delle attiviste femministe, motivata dalla realtà millenaria, a considerare il potere (e non a caso anche il denaro) come sporchi e velenosi.

E come potrebbe essere diversamente, visto che siamo cresciute, e ancora cresciamo le bambine, diversamente dai bambini, nella convinzione che l’ambizione, il coraggio, la forza e l’autorità siano caratteristiche buone e luminose della virilità, mentre i tranquilli confini di modestia, accomodamento, comprensione e accoglienza sono le qualità che definiscono la femminilità e, di nuovo non a caso, anche la sessualità femminile.

Potere e denaro, quindi, sono naturalmente connessi con gli uomini, ma se è una donna a maneggiarli scattano mille campanelli d’allarme sulla sua legittimità, capacità, onestà, rispettabilità.

Siamo in molte ad esserci emozionate nel vedere questa quarantenne, (che ha chiuso la bocca al satrapo delirante ricordandogli di non essere ricattabile), camminare nel cortile e nelle sale del Quirinale per ricevere l’incarico dalle mani del Presidente della Repubblica. E sì, ora potremo dire un nome e cognome di donna alle bambine italiane per dare corpo al concetto di una premier.

Purtroppo però questa prima premier ha già decapitata la portata simbolica della sua vittoria decidendo di invisibilizzarsi proprio nella nominazione del suo ruolo politico.

Ha dichiarato con decisione di essere donna, madre e cristiana ma, appena avuto il potere, ha scelto di negare quella stessa femminilità che evidenziava nella messa in risalto della sua fede e del suo ruolo genitoriale: come altre donne prima di lei, (anche a sinistra), la carica acquisita, specialmente se legata al potere della rappresentanza, passa alla declinazione maschile, rafforzando e rendendo degna, purtroppo, la distopica vulgata della ‘donna con le palle’ chesolo così riconosce come possibile l’eccellenza femminile. Sarò il Presidente del Consiglio, ha fatto sapere a mezzo stampa. E così sì è rimessa, insieme a tutte noi, al posto che il patriarcato le ha assegnato.

Al di là della distanza siderale della collocazione di Giorgia Meloni nel panorama politico rispetto al pensiero femminista (a cui lei stessadeve comunque la possibilità di aver raggiunto il suo obiettivo) questa scelta denuncia una debolezza che ricade, inevitabilmente, data la rilevanza del suo ruolo, su tutte le donne, e ci fa tornare indietro, al punto di partenza, in questo faticosissimo percorso ad ostacoli verso i luoghi decisionali apicali della politica e della rappresentanza.

Fa notare la storica Rosangela Pesenti dal suo sitola sua collocazione simbolica svaluta la sua stessa vittoria e si immette quasi in sordina nella storia della sconfitta delle donne fasciste che in Italia si consumò all’interno dello stesso partito dopo la marcia su Roma, con la cancellazione delle personalità più carismatiche, relegando le altre al ruolo che troverà poi nel nome “ausiliarie” il suggello della posizione.Come se Elisabetta prima e seconda, o Vittoria, avessero rifiutato il titolo di regina e Caterina o Maria Teresa quello di imperatrice”.Per chiamarsi, facendo tra l’altro a pugni con la grammatica, re Elisabetta o imperatore Maria Teresa.

 

 


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