Donne in Armenia - La privatizzazione selvaggia ha impoverito il paese e soprattutto le donne, che hanno scelto la cooperazione.
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2007
L’Armenia è un piccolo stato montuoso del Caucaso del sud, che conta 3,5 milioni di abitanti, un numero di gran lunga inferiore rispetto a quello degli armeni sparsi in tutto il mondo (circa 15 milioni, con le comunità più numerose in Russia, Francia e Usa). Sotto il sistema sovietico di pianificazione, questo paese aveva sviluppato un settore industriale moderno, che produceva macchine utensili, tessuti e altri beni manifatturieri da destinare alle repubbliche “sorelle”, in cambio di energia e materie prime. Dopo lo smembramento dell’Unione, il crollo della domanda esterna e la lentezza con la quale si era proceduto alla privatizzazione del settore industriale avevano fatto sì che l’economia armena s’incentrasse soprattutto sulla piccola produzione agricola. Ma per sopravvivere il paese aveva bisogno di tecnologie avanzate e di forti investimenti, dopo che sotto la pressione del FMI i suoi mercati erano stati liberalizzati.
Nel 1994 il governo armeno adottava un piano di riforme, che prevedevano la privatizzazione immediata delle terre coltivabili. Tuttavia, queste non produssero risultati immediati. Anzi, nella seconda metà degli anni novanta vi era stato un sensibile declino della produzione generale, portando il 50,9% della popolazione sotto la soglia nazionale di povertà (con 1 dollaro pro capite al giorno) e il 34% di essa fuori dal mercato del lavoro. Ancora oggi, nella regione dello Shirak, il 73,6% della popolazione vive sotto la linea di povertà, mentre nella città di Gyumri quasi 12.000 persone abitano in baraccopoli fatiscenti o in container, in condizioni di assoluta miseria.
Certamente l’Armenia scontava una pesante eredità storica: secoli di guerre e invasioni erano culminati nel genocidio armeno del 1915 ad opera dell’esercito turco e delle bande armate locali. La diaspora armena aveva portato all’estero una popolazione molto superiore a quella rimasta nella piccola Repubblica sovietica d’Armenia sorta nel 1922 e divenuta poi indipendente nel 1991. La questione del Nagorno-Karabakh (enclave armena a maggioranza cristiana in territorio azero), che aveva causato un conflitto con il vicino Azerbaijan, non trovava soluzione, così come risultava impossibile risollevare le sorti del nord-ovest dell’Armenia devastato nel 1988 da un rovinoso sisma, in cui erano morte oltre 30.000 persone e migliaia erano rimaste senza tetto. Inoltre, dopo l’indipendenza, il paese era rimasto per ben sei anni escluso da ogni rifornimento. I legami con la Russia si erano chiusi, specialmente per quanto riguardava il settore energetico, aggravando ulteriormente il declino dell’economia interna fortemente dipendente da quello Stato e provocando, di conseguenza, vasti movimenti di profughi e sfollati, di cui la gran parte erano uomini. Questo fenomeno era alla base dell’aumento delle famiglie monoparentali con la donna capofamiglia (27% del totale delle famiglie), lasciate sole nella cura e nel mantenimento dei figli e degli anziani. Erano cresciute anche le famiglie povere che abbandonavano i propri figli negli orfanotrofi. Oggi, in Armenia, ben 11mila bambini (circa l’8% di quelli in età scolare) sono ospiti d’istituti pubblici. A complicare le cose vi era, infine, la comparsa di famiglie “parallele” (gli operai maschi emigrati avevano costituito un’altra famiglia nel loro nuovo paese). Per tutti gli anni novanta, i finanziamenti provenienti dalle comunità armene all’estero costituirono la principale fonte di sostentamento dell’economia e la popolazione poté sopravvivere grazie all’aiuto della diaspora.
Nel 2003 il governo, sempre sollecitato dal FMI, assumeva un programma di stabilizzazione dell’economia (riduzione dell’inflazione, normalizzazione del corso della moneta) e di privatizzazione del settore industriale. Sulla base delle necessità dell’ex-Urss erano stati costruiti dei “giganti industriali” con l’impiego di 10-15 mila addetti. Naturalmente, per un paese con pochi abitanti, quei complessi industriali sono oggi inutilizzabili. Bisognava, dunque, cambiare tutto il sistema e progettarne uno nuovo, basato sulle piccole e medie imprese. Data la portata del piano di riconversione, la privatizzazione e il riassetto dell’industria sono ancora in corso. Qualche segnale di ripresa c’è, anche se l’economia fatica a decollare e lo squilibrio commerciale è in qualche modo compensato dall’aiuto internazionale, dall’emigrazione di forza lavoro all’estero e dagli investimenti stranieri diretti.
Il ritardo nello sviluppo economico si ripercuote soprattutto sulle donne. Prima del crollo dell’Urss, quelle residenti nelle aree rurali erano occupate nelle cooperative agricole statali, mentre ora, con la privatizzazione delle terre, sono diventate braccianti alle dipendenze della nuova aristocrazia terriera. Ma non tutte. Alcune sono proprietarie di piccole fattorie agricole prive però di sovvenzioni statali o micro-crediti bancari necessari per comprare sementi, attrezzi, capi di bestiame, scorte di cibo e medicinali per gli animali. Questo dato è preoccupante se si pensa che il 45% della popolazione femminile occupata lavora attualmente nell’agricoltura, che si conferma il primo settore d’impiego per le donne (in epoca sovietica, questo primato spettava, invece, all’industria) seguito da quello dell’istruzione e dell’Information technology. Tutte le industrie statali alimentari, tessili e manifatturiere sono state chiuse in seguito alle recenti privatizzazioni, ed è la causa per cui le donne costituiscono in Armenia il 66% degli operai industriali disoccupati. Alcune di loro, che vivono nelle città, hanno rinunciato a lavorare. Altre sono “emigrate” nell’agricoltura o nel settore dei servizi. E nemmeno l’esodo maschile (negli ultimi dieci anni la popolazione femminile è passata dal 51% al 56% del totale), che aveva determinato una notevole riduzione della manodopera in alcuni settori chiave, è stato vantaggioso per le donne, che subiscono ancora alti tassi di disoccupazione, connessi al collasso dei servizi pubblici. Il 71,4% dei disoccupati ufficiali sono donne con istruzione media superiore. Anche il tasso di povertà è alto: circa l’82% delle donne con 4 o più figli non lavorano; il 67% delle madri sole sono disoccupate; il 51% delle famiglie numerose e il 63% di quelle monoparentali con la donna capofamiglia fanno affidamento sul denaro che proviene dai familiari emigrati all’estero, o su altre forme di assistenza, per sbarcare il lunario. Inoltre, le donne armene percepiscono minimi salariali bassi e il loro salario medio mensile è il 30% in meno di quello degli uomini.
“Il piano d’azione nazionale 2004-2010 sul miglioramento della condizione delle donne armene e sull’aumento del loro ruolo nella società” evidenzia, innanzitutto, la loro partecipazione ridotta nella società, e s’impegna per accrescere il loro contributo civile e politico (le donne rappresentano attualmente il 5% dei parlamentari). Per migliorare il loro status economico sociale, il programma offre invece opportunità d’investimento, particolarmente per quelle che vivono nelle aree rurali, incoraggiandole a costituire delle cooperative a livello di villaggi, raggruppate in federazioni regionali. Attraverso di esse è più facile, infatti, ottenere micro-crediti o prestiti di capitale per lo sviluppo della piccola imprenditorialità femminile e dell’associazionismo tra liberi produttori. E’ questo il caso delle donne residenti nei villaggi di Nalbandyan e di Balahovit. Nel primo hanno avviato fattorie agricole, nel secondo hanno acquistato in forma consociata poderi dove coltivano ortaggi, alberi da frutta e allevano polli e maiali. Alcune sono ex medici o insegnanti, che arrivano da Sumgait, città industriale che si trova in Azerbaijan, e che si sono rifugiate in Armenia durante il conflitto tra i due paesi (1991-1994). Dopo un convulso periodo di privatizzazione selvaggia, le donne hanno quindi scelto per il loro futuro la cooperazione basata su autonomia, autogestione, iniziativa, e dove interessi personali e collettivi s’inseriscono in modo equilibrato nel meccanismo dello sviluppo economico.
(17 aprile 2007)
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