Paradigmi invisibili - Le risorse delle donne per un mutamento della politica
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2006
Il pozzo è un luogo da sempre appartenuto alle donne, dentro e fuor di metafora: sono le donne ad andare a prendere l’acqua al pozzo, percorrendo distanze chilometriche, nei paesi del Terzo Mondo in cui questa è, ancora oggi, pratica quotidiana necessaria. E sono le donne, ovunque nel mondo, a conoscere “quello che si sa quando si viene su dal pozzo” (Alba De Céspedes). Perchè? Un po’ per via di quello che Natalia Ginzburg definiva il guaio delle donne: “la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una terribile malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla”; un po’ perchè le donne sentono, più degli uomini, il bisogno, sano, di ritornare a visitare luoghi in cui si svolge la vita in tutta la sua autenticità.
Cogliendo l’occasione della rilettura del carteggio tra le due scrittrici De Céspedes e Ginzburg, pubblicato nella rivista “Mercurio” nel 1948, e riproposto da Anna Maria Crispino in Ciao Bella. Ventun percorsi di critica letteraria femminile oggi, (Milano, Manni-Lupetti, 1996, pp. 173-182), voglio invitare ad una breve riflessione sulla pratica del visitare pozzi applicata alla sfera politica.
Prima una precisazione: negli ultimi 5 anni le donne sono state vittime di legislatori poco attenti, che hanno compilato “pastrocchi”: come la legge 40 sulla fecondazione assistita e la recente legge sull’affidamento condiviso. In entrambi i casi si tratta di leggi fondate su un’astratta idea morale (il diritto dei figli/embrioni) senza tenere conto di quello che succede effettivamente nel quotidiano di uomini, donne e bambini/e. A causa della legge 40, le donne che si rivolgono alla fecondazione assistita devono sottoporsi a indicibili e inutili sofferenze del corpo. Presupponendo una parità di condizioni sociali ed una condizione d’accordo (entrambe cose che non esistono quasi mai tra genitori separati), la legge sull’affido congiunto penalizza innanzitutto i figli, che saranno vittime di continue conflittualità irrisolte (allora la decisione è rimessa al giudice, coi tempi dei tribunali!). Inoltre, è un netto ritorno indietro contro le donne, che vengono decisamente penalizzate pur non essendo nemmeno nominate. Facendo riferimento solo a un neutro “il genitore”, la scrittura rivela la natura del legislatore che ci sta dietro: un uomo (o potrebbe anche essere una donna) che non ha mai fatto pratica di pozzi. Perchè chi ha fatto tale pratica, avendo conosciuto la sofferenza, riesce a riconoscere anche quella dell’altro/a, e a provarne compassione. A pensare leggi compassionevoli (volte a limitare le sofferenze), piuttosto che punitive e fondamentaliste.
Ma per sapere fare certe cose bisogna avere scoperto l’inganno del “privilegio di essere liberi dal dolore, dalla miseria umana”: “Chi scende nel pozzo conosce la pietà. E come si può vivere, agire, governare con giustizia senza conoscere la pietà?” scrive, nel prezioso carteggio, Alba De Céspedes. E, denunciando la mancanza delle donne nei luoghi di governo e nella magistratura (“il diritto ad essere magistrati” verrà sancito solo dal 1963), aggiunge: “Gli uomini non solo ignorano l’esistenza di questi pozzi, e tutto ciò che s’impara quando si cade in essi, ma ignorano anche d’esser proprio loro a spingervi le donne con tanta spietata innocenza. ... Tu dici che le donne non sono esseri liberi: e io credo invece che debbano soltanto acquisire la consapevolezza delle virtù di quel pozzo e diffondere la luce delle esperienze fatte al fondo di esso, le quali costituiscono il fondamento di quella solidarietà, oggi segreta e istintiva, domani consapevole e palese, che si forma fra donne anche sconosciute l’una all’altra.”
Queste parole scritte nel 1948 risultano essere fin troppo attuali. Dobbiamo stare attente, molto attente, a non farci strappare di mano i progressi del femminismo, magari annebbiate dalla conquista di un seggio elettorale, dalle quote rosa, che il nostro partito ha rispettato, nonostante la legge non sia passata in Parlamento. Il diritto di famiglia del 1975 e le leggi in difesa dei diritti delle donne stanno subendo dei gravissimi attacchi.
E inoltre è necessario distinguere tra il “il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina" di cui parla Papa Ratzinger (riuscendo a portare dalla sua parte le femministe più agguerrite!), e il rispetto del pluralismo etico: ci sono scelte di valore che vanno rispettate, anche se, con tutta probabilità, sono differenti dai fondamenti della morale cattolica, che difende l’indissolubilità del matrimonio (retrostante la recente legge sull’affidamento condiviso) e la presenza di vita nell’embrione. Nelle due leggi sopra nominate è palese la presenza di un unico valore di riferimento, pretestuosamente collegato alla fede cristiana, ma in realtà connesso all’esigenza maschile di evitare di cadere nei pozzi, e alla tendenza maschile di controllare, piuttosto che condividere, ciò che avviene nel mondo del privato: la sofferenza che una vita intima, vissuta in tutta la sua profondità, può comportare. Le donne sanno in cosa consiste la reale relazione con i figli, fin dalla loro presenza nella pancia: conoscono il pozzo delle difficoltà da affrontare giorno dopo giorno, con figli che crescono e scalpitano. Compito delle leggi non è auspicare che la pratica del privato possa essere condivisa tra uomini e donne, ma aiutare le persone in difficoltà ad affrontare la concreta realtà di ogni giorno.
La lunga pratica femminile di pozzi (in cui vi è l’infelicità dello sprofondare nella sofferenza, ma anche la felicità di sapere stare in relazioni significative, di sapere dare e darsi con tutte se stesse) è uno strumento di conoscenza irrinunciabile. Le donne oggi non possono rinunciare al loro patrimonio di genere, lasciandosi annebbiare dalla parità-omologazione al valore-paradigma unico maschile. Non possiamo ammettere che altri pastrocchi di legge attentino ai nostri diritti umani.
Concludo dando voce ad una femminista americana, Genevieve Vaughan, vissuta molti anni in Italia ed ora tornata nel Texas, dove ha fondato numerose associazioni rivolte a riportare “come chiave interpretativa del simbolo”, e a farla emergere dalla invisibilità in cui è relegata, la pratica del dono e della cura, che è alla base della nostra vita e da riconoscere “in ciò che molte donne e alcuni uomini fanno già tutti i giorni” (Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Meltemi, 2005). Ecco cosa scrive Vaughan nella introduzione di un volume monografico edito dalla rivista italiana Athanor nell’agosto 2004: “Oggi nel mondo coesistono due paradigmi economici di base, logicamente contraddittori ma anche complementari. Uno è visibile, l’altro invisibile; uno fortemente apprezzato, l’altro sottovalutato. L’uno è collegato con gli uomini, l’altro con le donne. Quello che dobbiamo fare è dare valore a quello collegato con noi donne per causare uno spostamento fondamentale dei valori con cui gestiamo le nostre vite e le nostre politiche”.
C’è da auspicarsi che, conclusesi le imminenti elezioni, le donne (e gli uomini) che saranno chiamate a partecipare alla redazione di leggi importanti per lo svolgersi quotidiano della vita di persone in carne ed ossa, sapranno ricordarsi dell’esistenza di tali paradigmi invisibili, appartenuti per secoli alle donne.
/7 aprile 2006)
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