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Artemisia, che dipingendo vendicò lo stupro subìto - di Silvia Tomassetti

Artemisia, che dipingendo vendicò lo stupro subìto - di Silvia Tomassetti

Ricordiamo Artemisia Gentileschi, nata a Roma l’8 luglio 1593, una delle pittrici più importanti del ‘600

Mercoledi, 20/07/2022 -

Ricordiamo Artemisia Gentileschi, nata a Roma l’8 luglio 1593, una delle pittrici più importanti del ‘600. 

“Finché vivrò avrò il controllo sul mio essere”. Una affermazione insolita per una donna nel XVII secolo, ma non per Artemisia, “pittora” quando questa arte era riservata esclusivamente agli uomini, imprenditrice di se stessa, femminista ante litteram.  

Figlia di Orazio Gentileschi, noto pittore caravaggesco, fin da bambina coltiva la passione per l’arte, incoraggiata dal padre che le insegna il mestiere. Ne diviene discepola, con ottimi risultati. 

Lo studio era frequentato anche dal pittore Agostino Tassi, amico di Orazio, che circuisce la ragazza e al suo rifiuto la violenta, aveva 17 anni. Il padre denuncia lo stupro solo dopo nove mesi quando scopre che il Tassi non può sposare Artemisia, in quanto già sposato. 

Nei processi per stupro dello Stato pontificio la vittima diventava la vera accusata. Artemisia dovette sopportare un estenuante processo pubblico, mediatico diremmo oggi, e la tortura per provare la veridicità della sua denuncia. Fu sottoposta alla “sibilla”: le mani legate a funi e tirate, le dita schiacciate da bulloni, pericolosissimo per una pittrice. Lei tuttavia, non ritrattò. 

Tassi fu condannato a lasciare Roma per 5 anni, pena che di fatto non scontò mai.

Un processo per stupro, all’epoca, equivaleva al disonore e Artemisia da quel momento in poi, nonostante fosse una vittima, venne considerata una donna di facili costumi. Dovette quindi accettare un matrimonio riparatore con un mediocre artista, organizzato dal padre, e nel 1612 si trasferì col marito a Firenze.  

Qui Artemisia conobbe un lusinghiero successo e grazie alla sua bravura venne ammessa all’Accademia delle Arti e del Disegno, prima donna in assoluto. Divenne amica di Galileo Galilei, si racconta che fu grazie alla sua intermediazione che i Medici la pagarono per la tela “Giuditta che decapita Oloferne”, giudicata troppo violenta. 

Ebbe due figlie, ma nel 1621, mostrando ancora una volta il suo spirito indipendente, lasciò il marito e si trasferì con le figlie a Roma dove entrò a far parte dell'Accademia dei Desiosi.  

Le opportunità lavorative la spinsero poi a spostarsi, prima a Venezia e poi a Napoli, nel 1630, dove ebbe importanti commissioni, anche da parte della Chiesa. Il resto della sua vita è segnato da continui spostamenti, dovuti alla fama crescente, per un breve periodo lavorò anche per i reali inglesi. Morì a Napoli nel 1653.  

La violenza subita lascio’ in lei profonde ferite e i suoi dipinti ne portano traccia come nel già citato e celebre “Giuditta che decapita Oloferne”, quasi un ritratto autobiografico: gli schizzi di sangue nel lenzuolo rievocano la violenza subita e il coltello che Giuditta infilza nel collo di Oloferne la vendetta agognata.  

Una donna modernissima, Artemisia, che scelse di essere artista in un'epoca dominata dagli uomini, che lavorò per le corti di Firenze, Roma. Napoli e che sempre difese la sua libertà di vita.  

Nella foto: Giuditta che decapita Oloferne, 1620, Galleria degli Uffizi, Firenze

 


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