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Arte come cura dell’altro

Arte come cura dell’altro

Sguardi d'artista - Chiude i battenti il 16 settembre una delle mostre di arte contemporanea più importanti al mondo, a Kassel è dOCUMENTA (13)

Flavia Matitti Mercoledi, 12/09/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2012

Documenta, che si tiene ogni cinque anni a Kassel, piccola cittadina nel centro della Germania, è considerata una delle mostre di arte contemporanea più importanti al mondo. A dirigere la tredicesima edizione, aperta quest’anno per 100 giorni fino al 16 settembre, è stata chiamata l’italiana Carolyn Christov-Bakargiev (classe 1957), che ha maturato una lunga esperienza curatoriale al Museo d’arte contemporanea del Castello di Rivoli e nel 2008 ha diretto la Biennale di Sidney. La scelta appare doppiamente felice sia perché per la prima volta l’incarico va a un italiano, sia perché, per la seconda volta, la direzione è affidata a una donna (la prima era stata la francese Catherine David nel 1997). E uno sguardo femminile sul mondo, inteso come un prendersi cura dell’altro, dell’ambiente e della storia, appare un segno forte di questa edizione, una sorta di filo rosso che collega fra loro gli artisti - 193 di cui 67 donne - e le opere esposte, per lo più realizzate per l’occasione.

Ricorrono dunque tematiche ambientaliste, per esempio nell’intervento della statunitense Amy Balkin (1967), autrice di un’azione indirizzata all’UNESCO volta alla tutela dell’atmosfera terrestre; o di Maria Thereza Alves (1961) sul prosciugamento del lago Chalco in Messico; o dell’italiana Lara Favaretto (1973), che ha lavorato anche a Kabul, una delle sedi distaccate della mostra. Nella vecchia stazione di Kassel Favaretto ha realizzato un minaccioso monumento, utilizzando il ferro delle discariche cittadine, che poi verrà riciclato.

Naturalmente anche le questioni legate alla memoria storica, e alle sue amnesie, sono molto sentite. L’italiana Rossella Biscotti (1978), per esempio, mette in scena i processi contro le Brigate Rosse e Autonomia Operaia tenuti a Roma nell’aula bunker al Foro italico; la canadese Janet Cardiff (1957), con uno spaesante audio-tour nella vecchia stazione, ci conduce fino al binario da dove partivano i treni diretti ai campi di concentramento; sempre in stazione la scozzese Susan Philipsz (1965), con una metafisica installazione sonora (basata sulla musica di Pavel Haas, morto ad Auschwitz nel 1944), evoca l’enigma della partenza; mentre la croata Sanja Ivekoviæ (1949), con il lavoro The Disobedient (2012), si ispira a una fotografia del 1933, scattata a Kassel, che mostra un asino chiuso in un recinto da un soldato nazista come monito per i “testardi”.

Questa edizione offre anche l’occasione di riscoprire artiste dimenticate come l’ebrea tedesca Charlotte Salomon, morta nel 1943 ad Auschwitz, oppure Hannah Ryggen (1894-1970), esponente del partito comunista norvegese, che nel 1937 all’Expo di Parigi, dove Picasso esponeva Guernica, presentò un grande arazzo che condannava l’invasione dell’Etiopia da parte di Mussolini.

Con sapiente regia Carolyn Christov-Bakargiev ha insistito sull’idea di coinvolgimento a partire da quattro situazioni, o condizioni esistenziali, tipiche della nostra epoca: agire su un palcoscenico; essere in una condizione di ritiro, fuga o esodo; vivere sotto assedio; provare un senso di speranza. Molti artisti hanno interpretato questi temi oscillando tra i concetti di distruzione, collasso, catastrofe, da un lato, e rigenerazione, ripresa, guarigione dall’altro. In questo senso appare emblematica la struggente installazione del franco-algerino Kader Attia (1970), intitolata significativamente The Repair (2012). L’artista ha esposto vari oggetti africani riparati dagli artigiani locali ricorrendo a materiali di provenienza colonialista, come bottoni, monete, cartucce. Nella stessa sala ha raccolto volumi sulla statuaria classica, sculture africane, libri di chirurgia e foto di mutilati, mentre uno slideshow mette a confronto gli oggetti africani aggiustati e l’esito delle operazioni chirurgiche su soldati feriti durante la prima guerra mondiale. L’insieme, di grande impatto emotivo, fa riflettere sull’idea, illusoria, di perfezione, sulla fragilità umana, ma anche sulla possibilità di superare eventi traumatici e, a livello storico-politico, di riconciliarsi con il passato, in questo caso coloniale. Molto spazio in questa Documenta è dato anche agli avvenimenti della primavera araba.

#foto5dx#La rassegna, del resto, nata nel 1955 come atto di speranza in una città rasa al suolo dai bombardamenti, ha sempre manifestato una vocazione politica e un’attenzione particolare al rapporto arte-società, che la rendono distante dallo star-system. Numi tutelari di questa edizione, oltretutto, si possono idealmente considerare due grandi maestri come Alighiero Boetti (1940-1994), innamorato dell’Afganistan, e Fabio Mauri (1926-2009), del quale sono esposti anche alcuni grandi zerbini che presentano scritte come “L’arte fa perché è storia e mondo” e “Forse l’arte non è autonoma”. Sono aforismi che ci ricordano l’importanza che l’arte non rinunci all’impegno civile, etico e politico.

 

http://d13.documenta.de/



 



DIDASCALIE



Foto 1 Susan Philipsz, Sound test, 2011 (foto F. Matitti)



Foto 2 Hannah Ryggen, Drommedod (Death of Dreams), 1936 (Photo Roman Maerz)



Foto 3 Ryggen, Etiopia, 1935 (Photo Roman Maerz)



Foto 4 Charlotte Salomon, Leben oder Theater, 1941-42 (photo Roman Maerz)



Foto 5 Rossella Biscotti, Il Processo, 2012 (photo Anders Sune Berg)



Foto 6 Kader Attia, The Repair, 2012 (foto F. Matitti)

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