Lunedi, 13/02/2012 - In occasione della rappresentazione di Arie al Teatro Vittoria di Roma, incontriamo Lella Costa, straordinaria affabulatrice, attrice dalla comicità che sa essere lieve e tagliente, da sempre voce artistica autorevole della “questione femminile” e madrina di numerose iniziative sociali, dalle incursioni teatrali nelle carceri alla storica amicizia e collaborazione con Emergency. Nel 2010 è stata insignita, dal Conservatorio di Milano, del premio Una vita per la musica, per la straordinaria importanza che la musica ha avuto nel suo lavoro; è lei stessa a definirlo una serie di “piccole romanze recitate”. Nasce così Arie, uno spettacolo antologico costruito sul filo delle composizioni che hanno contribuito al farsi di tutti i lavori dell’attrice, ma soprattutto un quadro composito e travolgente della realtà quotidiana, raccontata anche attraverso l’incursione astorica, atemporale e per questo icastica, dei classici della letteratura.
Arie è uno spettacolo che sembra voler lavorare sull’essenzialità della memoria.
Sì, è lavorare sulla memoria ma soprattutto si tratta di lavorare su un repertorio, e avanzare così, sobriamente e sommessamente, l’ipotesi che forse anche noi, la generazione considerata a lungo “i nuovi”, dopo una trentina d’anni possiamo avere un repertorio che possa essere riproposto. Io trovo folle questa specie di bulimia e di consumismo per cui ogni stagione deve produrre qualcosa di nuovo. È anche un po’ questa l’idea, quella di dire che brani decontestualizzati, estrapolati da un altrove possono vivere una nuova vita, a prescindere dal contesto che li ha prodotti. Può esserci la battuta sul comandante Schettino che la settimana dopo cambia e diventa quella sulla Margherita, ma i testi così sono nati e così restano. Questo mi sembra confortante.
L’attualità di questo lavoro è dovuta all’aver riproposto valori universali o al fatto, scoraggiante, che in fondo la realtà a cui si riferisce non è cambiata?
Svincolarsi dall’attualità e ragionare sulla contemporaneità credo sia proprio una necessità in questo momento, e questo vale anche per la politica. Sto guardando come in questi giorni non si faccia che parlare del maltempo, e, al di là della tragedia che ha significato per chi lo ha vissuto, del caso della Concordia; c’è un po’ la sensazione che siano delle diversioni per lasciare che la politica lavori indisturbata. Se io avessi inseguito l’attualità, se avessi fatto un tipo di comicità, un tipo di scrittura e di narrazione molto aderente agli eventi, non credo che avrei potuto riproporre brani così, sarebbero inevitabilmente datati, invecchiati. Dal mio punto di vista, quello di attrice, poter tornare sul mio lavoro è un buon segno, vuol dire che ho scelto di prendere una direzione che dimostra di poter essere praticabile. Non voglio dire che debba essere l’unica e non so neanche se sia giusta in assoluto, però se siamo ancora qui a commuoverci su Antigone, vuol dire qualcosa.
Contrapporre la contemporaneità all’attualità. La contemporaneità del discorso di Pericle.
Ragionare sui fenomeni del contemporaneo, e non su singoli eventi, è un modo per riportare l’attenzione sulle cose essenziali. C’è stata un’affettuosa querelle con Umberto Eco per cui giorni prima di venire al mio debutto milanese ha scritto su Repubblica che è inutile riproporre il discorso di Pericle perché, in realtà, Pericle era un tiranno, quella ateniese una democrazia imperfetta e decontestualizzando si finisce con il produrre miti. Io gli ho detto: ma tu queste cose riusciresti a dirle meglio di così? Sai che autorevolezza e soprattutto come non alimenta il sospetto di schieramenti di parte. Non ti sto dicendo una cosa che ho pensato io o che ho letto o che ha scritto … mi sfuggono nomi di pensatori di sinistra contemporanei, ma viene dal 461 a.c.. Neanche la Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo è stata applicata da nessuna parte, eppure è un riferimento politico fondamentale.
Oggi, affrontando certi argomenti, trattando un certo tipo di questioni che non si rifanno alla mera attualità ma cercano di comprenderne i fenomeni, si rischia di essere tacciati di “moralismo”, o peggio di “buonismo”. Oggi, per essere contemporanei, sembra bisogni accettare, legittimare comportamenti che vanno al di là del comune sentire, svincolati da qualunque connotazione etica. Un esempio è il discorso sulla prostituzione: racconti un uomo che ha paura, e che quando ha paura di qualcosa preferisce comprarla, possederla piuttosto che capirla. Come uscirne?
Questo è un lavoro che devono fare gli uomini. Qui siamo ai fondamentali dell’educazione sentimentale, ma anche etica, di un maschile che io non ho nessuna intenzione di criminalizzare in toto, ma che deve muoversi per uscirne perché non è più tollerabile. Qualche sera fa ero ospite a Linea notte del Tg3 e si commentava la notizia per cui la suprema Corte ha dichiarato che lo stupro di gruppo non comporta la custodia in carcere degli indagati. Non dico che sia una depenalizzazione ma trasforma la violenza di gruppo in un’attenuante e non un’aggravante, e allora senti dire che puntuale è la levata di scudo di tutte le donne in parlamento. Ecco, aspetto il giorno in cui ci sia una levata di scudo trasversale, e soprattutto da parte degli uomini. Questa assenza è desolante. È veramente indispensabile un cambiamento.
E questa educazione all’emotività da dove potrebbe partire?
Evitiamo il solito rimpallo scuola-famiglia, però credo che sicuramente il materno potrebbe fare molto. Come soffro quando vedo nei processi per stupro le madri degli imputati difendere i figli e accanirsi contro le vittime, e come vedo ogni volta, nonostante tutto, trasformare la vittima in imputata. Deve essere un cambiamento culturale profondo; se tu vai a guardare bene e leggi un pochino dietro le righe, lo stupro in questo paese non è considerato veramente un reato, soprattutto se non si tratta di vittime minorenni o vergini. Questa cosa comporta un lavoro culturale e dev’essere fatto. Io non so se ci riesco, ma bisogna costruirlo dosando molto bene la perfidia, la ferocia e dimostrando in questo caso che il re è nudo, e dall’altra parte però mantenere viva un’affettività che protegga; non bisogna spaventarli perché comunque sono convinta che questo percorso vada fatto insieme. E poi, non è possibile che bisogna dirgli tutto! Noi abbiamo fatto autocoscienza, è ora che comincino loro.
Il teatro è un po’ un luogo d’élite, frequentato da gente informata e sensibile ad un certo tipo di temi, e il tuo è comunque un pubblico ricettivo, colto, che spesso condivide il tuo pensiero. Come far arrivare quello che racconti, e che racconti molto bene tramite lo strumento dell’ironia, veramente a tutti?
Sai, per me è indispensabile che oltre una forma (e per forma intendo una messinscena, una struttura, una drammaturgia, una resa dello spettacolo, l’interpretazione) ci siano anche dei contenuti; ma non è obbligatorio. Si può benissimo fare dell’ottimo teatro senza contenuti. Dato che per me è indispensabile, quello che io cerco di fare è trovare un equilibrio tra forma e contenuto in modo che chiunque venga a vedere il mio spettacolo se ne possa andare via riflettendo sulla possibilità di un’alternativa, anche se non condivide, se non ci aveva mai pensato. Non sempre il mio pubblico è fatto di gente informata. In questi casi il mio obiettivo è di divertire lasciando una traccia che possa poi far scaturire una riflessione, che è il principio di ogni cambiamento.
Alice che corre a perdifiato per poter restare esattamente nello stesso posto, Alice in un mondo alla rovescia, descrive benissimo la condizione delle donne nella società di oggi.
Credo che questa ormai non sia solo la condizione delle donne ma di tutti. Questa società ha obbligato tutti a correre, a rincorrere il tempo, a guadagnare di più per restare esattamente nella stessa condizione, per non perdere quello che già si possiede e non per conquistare dell’altro, per avanzare.
In Piccole donne tutte ci siamo identificate con Jo, con colei che sacrifica in fondo ogni certezza in nome dei suoi principi. Credi che oggi le donne abbiano modelli diversi, possano ancora identificarsi con Jo o si sentano maggiormente rappresentate dalla bella Amy, dalla sua leggerezza e la capacità di vivere in “società”?
No, le donne non possono, sempre, che identificarsi con Jo perché è la più vera, combattiva, conscia di sé e artefice del proprio destino. Tutte le donne saranno sempre Jo. Solo che oggi qualcuna sceglie di essere Amy, ma è una forma che la società ha messo a disposizione delle donne. È Jo che sceglie.
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