Lunedi, 26/09/2011 - Vietato uscire, guidare, pedalare, viaggiare. Farsi curare, sposarsi, studiare. Ma, dal 2015, concesso votare. In Arabia Saudita, monarchia assoluta islamica nata nel 1932, ad oltre 11 milioni di donne, che rappresentano oltre il 50% della popolazione totale, senza un “tutore” di sesso maschile è proibito fare praticamente tutto. Vivere una vita normale, in una parola, guardata comunque attraverso il velo nero che le costringe a coprirsi da capo a piedi. Eppure, le parole pronunciate il 25 settembre dal re Abdullah bin Abd el Aziz al Saud non lasciano spazio a dubbi: le donne “potranno concorrere come candidate alle elezioni municipali e avranno persino il diritto di voto”. L’occasione del discorso è solenne, e non a caso: l’apertura della nuova legislatura del Majlis al Shura, il Consiglio della Shura, unico organismo consultivo che affianca il potere reale, composto da 150 membri (maschili), di cui soltanto la metà eletta dal popolo (maschile). Le elezioni amministrative per nominarne i componenti sono le uniche ammesse nel paese e le prossime si svolgeranno tra 3 giorni, il 29 settembre, a distanza di sei anni dalle ultime. Troppo tardi per “aprire” alle donne, ma non per mettere a segno una mossa che solo a uno sguardo superficiale tratteggia la primavera saudita che si vorrebbe dipingere. Un successo indiscusso per le donne e per quei movimenti femminili che, silenziosi e repressi, tentano di aprire brecce nel muro di governance del sovrano assoluto. Ma solo una goccia in mezzo al mare di disparità, repressione e disuguaglianza in cui le donne sono costrette a vivere nel paese più ricco, stabile e filo-statunitense del Golfo Persico. Un’abile manovra, infine, da parte di un regime che è certo più spaventato che influenzato da quelle primavere che, nei paesi circostanti, continuano a ridisegnare il profilo del Medioriente.
Il regno wahabita della dinastia Al Saud è il paese che ospita le città sacre di Mecca e Medina, ma anche i maggiori giacimenti petroliferi dell’area, che lo rendono alleato strategico di Stati Uniti ed Europa, per i quali l’apertura a basilari diritti di cittadinanza come il voto, seppure di facciata, possono non dispiacere, in un contesto di instabilità e cambiamento che sta investendo la regione della Mezzaluna. Già nel giugno scorso, al montare delle proteste regionali, la monarchia aveva risposto con un tentativo di contenimento bifronte: all’esterno, con un inedito sostegno al regime di Bashar al Assad in Siria; e all’interno, con uno stanziamento di 100 miliardi di dollari in programmi occupazionali e di assistenza sociale. Ma le donne, caparbiamente, non hanno smesso di lottare e tentare di far sentire la propria voce. È a fine maggio che, grazie al potere dei social network, si diffonde su tutti i media internazionali la protesta di “Women2Drive” lanciata dalla trentenne Manal al Sharif che, nella città di Khobar, si mette al volante diffondendo un video su Youtube per rivendicare il proprio diritto a guidare la macchina. Verrà arrestata e costretta a chiedere perdono per il suo gesto, ma il suo coraggio ne influenzerà molte altre, che il 17 giugno si metteranno tutte insieme alla guida delle proprie auto, fotografandosi. Così come le donne della campagna per il diritto di voto, che da mesi in diverse città saudite si recano agli uffici elettorali per rivendicare il proprio diritti ad essere iscritte nelle liste, anche solo per essere rimandate poi indientro.
Di fronte alla mobilitazione femminile interna, e al mutamento ancora in divenire dei paesi dell’area, la dinastia saudita sembra aver preferito la scelta del male minore: concedere aperture alle donne che prevengano un innalzamento dei livelli di tensione, senza troppo scomodare i settori più conservatori e religiosi della monarchia e della società. Aprire alle libertà politiche insomma senza toccare quelle civili: le donne potranno votare ed essere elette, ma al seggio continueranno ad accompagnarle tutori di sesso maschile. Mettere a tacere lo scontento degli alleati occidentali senza dover toccare questioni ben più dirimenti in Arabia Saudita, un paese in cui i partiti politici sono vietati, la pena di morte resta in vigore e i fondamentali diritti umani e civili sono negati ad una popolazione annichilita dai proventi del petrolio.
Se non si può parlare allora di primavera, va comunque riconosciuta l’importanza del passo che i movimenti femminili hanno compiuto ottenendo l’autorizzazione reale all’esercizio di voto. Se è vero che la rivoluzione si costruisce anche un passo dopo l’altro, quello verso le urne, per le donne saudite, sarà soltanto il primo.
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