Mercoledi, 10/04/2019 - Distribuito da Satine Film, e pluripremiato al Festival di Rotterdam, “Sarah e Saleem: là dove nulla è possibile” (trailer), del regista palestinese Muayad Alayan, è un film che propone una visione diversa dai consueti schemi e contrapposizioni dell’eterno conflitto tra Israele e Palestina, partendo infatti da una storia privata - ispirata a fatti realmente accaduti - quella di una donna e di un uomo ‘colpevoli’ solo di una passione privata extraconiugale, nata per caso, che verrà trasformata dall’esercito in un affare di Stato, strumentalizzata in chiave spionistica, con conseguenze pesantissime ed inimmaginabili, soprattutto per la donna.
Sarah, moglie di un colonnello dell’esercito, è israeliana e gestisce un bar a Gerusalemme Ovest: il marito è sempre assente per lavoro ed è distratto e stanco anche nelle rare pause in cui è a casa.
Saleem è palestinese, anche lui sposato in attesa di un figlio, vive a Gerusalemme Est e fa il panettiere di giorno e il fattorino di notte, sempre alle dipendenze del cognato facoltoso che gestisce per lui, privo di mezzi, la vita e il lavoro. I due, provenienti da mondi distanti anni luce, s’incontrano durante una consegna al bar, si piacciono ed iniziano a vedersi clandestinamente, sfidano il destino per incontrarsi di nascosto nel furgoncino che Saleem usa per il lavoro. Per entrambi si tratta di un’evasione da una vita coniugale insoddisfacente, niente di più, fino al giorno in cui verranno visti nel posto sbagliato al momento sbagliato: Saleem sarà arrestato e picchiato dai Servizi israeliani e considerato un martire dai suoi connazionali (che non conoscono il motivo reale dell’arresto); Sarah, in quanto donna, nell’emancipato Israele, verrà ‘ripudiata’, non potrà tenere con sé la figlia e sarà additata come traditrice dal suo popolo.
“Ambientando la storia di due coppie nella città divisa di Gerusalemme - afferma il regista - ho voluto raccontare una storia umana che andasse al di là delle storie coperte dai media: volevo descrivere - insieme a Rami Alayan, mio fratello e sceneggiatore - come la vita nella Città Santa arrivi a creare pericolose soluzioni a situazioni sociali drammatiche piuttosto comuni, che possono accadere in qualsiasi parte del mondo ma qui, per la schiacciante pressione dell'ambiente politico-sociale, alle persone viene imposto un prezzo da pagare più alto. Il cinema con protagonisti che si trovano in situazioni più grandi di loro, mi ha sempre coinvolto e commosso, con situazioni che sfidano la persona comune, che è spesso un antieroe e cerca di andare avanti e trovare conforto e sicurezza in mezzo all'assurdità della vita. Essere eroe, per me, significa sopravvivere alle turbolenze e ai problemi della vita stessa”.
Il film è cupo e carico di tensione, la tragedia è annunciata fin da subito, anche nei momenti che descrivono la passione e la gioia dei due amanti, dall’atmosfera, dalle attese, dagli sguardi e dai silenzi, in casa e fuori, con la presenza inquietante e simbolica del Muro, che divide un intero mondo e non solo due territori. L’esercito controlla le vite di tutti, in nome della sicurezza nazionale, anche quando si tratta di relazioni private: il marito di Sarah verrà rimosso dalla carica e farà pagare caro alla moglie il tradimento, non quello presunto ed inesistente ai danni dello Stato ma quello personale, per lui inimmaginabile, rispetto al quale non sarà in grado di fare un’analisi lucida delle sue reali responsabilità.
Tra colpi di scena e circostanze imprevedibili, la storia di Sarah e Saleem mostra come due esseri umani possano ritrovarsi coinvolti in una situazione più grande di loro, che trascende le responsabilità familiari per diventare un caso politico, a dimostrazione di come, in questa terra martoriata, nulla sia veramente possibile.
“Volevamo anche raccontare - continua il regista - una storia basata saldamente sulla vita quotidiana a Gerusalemme, che parlasse della nostra capacità di connessione e interazione umana, così come dei nostri umani limiti di fronte alle pressioni estreme derivanti dal nostro ambiente repressivo. Al tempo stesso volevamo prendere le distanze da quelle opere romantiche, nel cinema o in altre forme d’arte, che usano narrazioni idealizzate su palestinesi e israeliani che si uniscono; troppo spesso ignorano la realtà delle cose che, già di per sé, separa le persone, trascurando i sistemi di compressione che vengono creati per mantenerne la divisione, il potere e la segregazione tra loro. L'obiettivo era concentrarsi sui protagonisti e sul loro stato d'animo mentre assecondavano le loro passioni, lottavano con i loro dilemmi personali e morali, galleggiavano nel limbo, affrontavano la turbolenza nel loro mondo, si scontravano, evolvevano”.
Il film usa uno stile narrativo naturalistico e realistico nell'immagine, nel suono e nel montaggio, al fine di enfatizzare il realismo, e spesso l'instabilità, della situazione in cui si trovano le vite dei personaggi.
Un ottimo cast, composto fra gli altri da Maisa Abd Elhadi, Mohammad Eid, Sivane Kretchner e Ishai Golan, contribuisce alla riuscita di un’opera complessa e interessante che, oltre ad intrattenere, fa riflettere sulla condizione della donna e degli esseri umani in genere.
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