L’altra America - La rivolta delle indiane d’America che rivendicano i loro diritti. A partire dal divieto dell’uso di una parola offensiva. Gli impegni del nuovo Presidente degli Stati Uniti
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2009
Sono state le prime ad essere massacrate e ora sono le ultime a ribellarsi contro l’uomo bianco, che le umiliò e le violentò nel corpo e nello spirito. La lunga storia della frontiera americana, dai primi anni del XVII secolo fino al termine del XIX, contiene una serie infinita di rapimenti, stupri, torture e uccisioni commessi sulle donne pellerossa rapite dai pionieri bianchi durante la conquista del suolo americano. Le prede preferite per questi colonizzatori d’oltre oceano erano le giovani e i loro figli, mentre le anziane e i maschi adulti erano subito eliminati. Il numero di donne indiane rapite, torturate e vendute come schiave, nel corso dei conflitti coloniali, della guerra d’indipendenza americana e successivamente durante la guerra civile, ammonta a diverse migliaia. Non si possono certo dimenticare film come “L’ultimo Apache” (1954) di Robert Aldrich, “Apache” (1972) di William A. Graham o “Soldato Blu” (1971) di Ralph Nelson, che mostra lo sterminio compiuto nel 1864 su bambini e donne Cheyenne nel villaggio di Sand Creek da parte delle giacche blu. Oggi, finalmente, le donne indiane di Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo, Osceola, Geronimo, Toro Seduto ecc. dichiarano guerra contro le più vistose discriminazioni effettuate nei loro confronti nel corso dei secoli. Si sono, innanzi tutto, stancate di essere chiamate squaw, una parola che fu adottata dai primi cacciatori bianchi, dai coloni, dai mercanti, dai soldati, che le diedero il significato che ancora oggi porta: “fighetta”. Valerie (“Cavallo veloce”), un’attivista di Coeur d’Alene (termine affibiato un tempo dai commercianti canadesi francesi alle tribù locali indiane, per la loro ostilità verso i bianchi trafficanti di pellicce e per la fiera resistenza delle loro donne alle avance degli yankee; oggi è una contea nello Stato dell’Idaho), afferma che per le tribù dell’Idaho, Montana e Washington, squaw è un termine sacrilego, che sta ad indicare l’organo genitale femminile, ed è così offensivo che per riferirsi ad esso queste tribù pronunciano solo l’iniziale “s”. Neyooxet Greymorning, professore di antropologia e studioso dei nativi americani all’Università del Montana, sostiene che “la parola originale voleva dire ‘giovane donna’, tuttavia ha assunto nel tempo il significato imposto dai coloni bianchi, che lo usavano per descrivere una donna inferiore o indegna”. Anche Ivan Goddard della New Mexico University, che ha dedicato la vita a studiare centinaia di linguaggi nativi, spiega che questa parola, probabilmente originaria tra gli Algonquin, nella forma di “ethskeewa”, una volta significava semplicemente ragazza, e non aveva nessun connotato dispregiativo. La rivolta delle squaw è la battaglia politica contro l’uso di epiteti razzisti, come lo sono negroe per gli afro-americani, mick per gli irlandesi, spic per gli ispanici, raghead o camel fucker, testa di stracci o amatore di cammelli per gli arabi, greaseball, palla di brillantina unta per gli italiani. Guidate dalle attiviste di Coeur d’Alene, molte tribù indiane hanno chiesto di cancellare questa parola denigratoria, fardello di una lunga storia di sofferenze inflitte dai settler alle “selvagge”, ed immortalata in valli, picchi e terre: dalla celebre Squaw Valley nello Utah, alla Big Squaw nel Maine, al Picco della Squaw in Arizona, al Torrente della Squaw nel Missouri, ai Giardini della Squaw in Oregon, al Campo da Golf della Squaw in Texas. Circa 940 siti, tra città, chiese, ponti, strade, scuole e formazioni naturali hanno ancora nel loro identificativo questo termine. Ruby Bernal, che rappresenta gli Shoshone, ha dichiarato: “Mantenere l’uso di quel nome, che ci offende e che tutti sappiamo benissimo a cosa allude, dopo aver bandito altri appellativi come nigger o jap o gooks riferiti a neri ed asiatici, significherebbe soltanto riconfermare la storia e la condizione d’inferiorità e d’oppressione di tutti i nativi”. Lo Stato del Maine ha approvato una legge per rimuovere dai posti pubblici la parola, impegnandosi a cambiare anche una serie di toponimi, come Squaw Mountain e Squaw Point. “Questa é un’importante battaglia per tutti. Per 400 anni le nostre donne sono state offese ogni volta che i bianchi le chiamavano cosi…”, ha sostenuto Donald Soctomah, l’indiano Passamaquoddy che ha presentato la legge. Nel gennaio 2008, l’attuale presidente americano Barack Obama, allora senatore dell’Illinois, si recava ad Albuquerque, in New Mexico, per incontrare i leader di tribù, che vivono nelle riserve create oltre un secolo fa: accolto con calore in una cerimonia disseminata di simboli pellerossa, il futuro presidente aveva spiegato che il suo programma di aiuti era destinato a favorire le famiglie più deboli del paese, fra le quali si contano numerosi componenti delle tribù pellerossa, e concludeva che bisognava impegnare il governo nella lotta alla povertà, all’emarginazione ed alla dipendenza dal bere, e far cambiare quei regolamenti che impediscono ai nativi indiani di proteggere i propri territori dalle speculazioni edilizie. Con questo impegno, Obama desiderava conquistare i cuori e le menti di oltre un milione di indiani americani residenti in ben 12 dei 22 Stati, che il 5 febbraio (il “super Tuesday”) avrebbero votato per le primarie. Per testimoniare la volontà di tenere alla sorte dei pellerossa, egli poneva in cima alla sua futura agenda di presidente la nomina di un consigliere per le questioni degli indiani americani, che avrebbe lavorato nel team della Casa Bianca, e l’organizzazione di summit annuali con i rappresentanti delle varie tribù. La sua proposta incontrava il favore delle comunità pellerossa del New Mexico e delle riserve indiane del South Dakota. Obama aveva anche assicurato che da presidente avrebbe garantito la tutela dei luoghi sacri e delle tradizioni culturali degli indiani americani. Dichiarazioni di sostegno al futuro presidente erano arrivate anche da Joe Shirley, presidente della Nazione Navajo. La fiducia accordata dai nativi indiani ad Obama ha intensificato la battaglia dei movimenti per l’eliminazione del termine squaw dai nomi dei luoghi geografici. Ed è così che l’Ufficio geografico nazionale di Washington ha già cambiato titolo a ben 16 valli, insenature e ad altri luoghi, racconta con orgoglio Jacqueline Johnson del Congresso nazionale degli indiani americani, secondo cui il successo più grande si è avuto il 10 aprile 2008, quando l’Ufficio federale ha cambiato titolo al Picco della Squaw, un punto d’escursione fuori Phoenix (Arizona), che ora si chiama Picco di Piestewa, in onore di Lori Ann Piestewa, una giovane soldatessa ispanica e membro della tribù degli Hopi, uccisa in Irak nel 2003. Inoltre, nove Stati - Minnesota, Montana, Oklahoma, Dakota del Sud, Oregon, Maine, Florida, North Carolina e Tennessee - hanno approvato delle leggi, che cambiano i nomi giudicati offensivi di luoghi pubblici. Nonostante le attiviste per i diritti delle donne indigene americane e native dell’Alaska abbiano ottenuto nel 2005 che il Violence Against Women Act (VAWA) includesse per la prima volta un Titolo (Tribal Title IX), che autorizza iniziative per far luce sulla situazione di violenza contro le donne indigene americane e native dell’Alaska negli Stati Uniti (e dirette ad ottenere giustizia per le vittime), i delitti sessuali rimangono ancora nella stragrande maggioranza dei casi impuniti, a causa della complessità del sistema giudiziario esistente. Una su tre di queste donne è destinata ad essere stuprata nell’arco della propria vita. Negli Usa si contano più di 550 tribù indigene americane riconosciute dal governo federale. Le tribù riconosciute a livello federale hanno potestà giudiziale sui propri cittadini e sulle proprie terre, ma le donne indigene, che denunciano atti di violenza sessuale commessi in territorio tribale, rimangono intrappolate in un labirinto, frutto della sovrapposizione di tre livelli giurisdizionali: tribale, statale e federale. Ciò ingenera confusione e incertezza al punto che alle vittime di violenza sessuale è negato l’accesso alla giustizia. I tribunali tribali hanno poteri limitati nel giudicare simili casi. Dai dati emerge che molti casi di stupro avvenuti su territorio tribale, e deferiti ai tribunali federali, non arrivano mai ad essere giudicati. Alle donne indigene viene di fatto negata giustizia e gli aggressori rimangono impuniti. Bruce Duthu, professore di studi sui nativi americani a Dartmouth, e autore del libro “Gli Indiani Americani e la legge”, ha chiesto che il Congresso risolva al più presto il conflitto di giurisdizione e stabilisca chiaramente a chi spetti indagare e perseguire reati a sfondo sessuale che si verificano su terre indiane, a prescindere se siano coinvolti o no membri tribali. Un’altra battaglia su cui è impegnato il professore è il risarcimento nei confronti delle migliaia di donne indiane sterilizzate tra il 1972 e 1976, contro la loro volontà, senza una reale necessità medica, e poste sotto il ricatto della privazione della custodia dei propri figli. Oltre al rapporto di Amnesty (“Maze of Injustice, 2007”) - sottolinea Bruce Duthu - nessuna stampa internazionale è intervenuta al riguardo. A chi fosse interessato ad approfondire la condizione e le battaglie della donna pellerossa, consiglio il libro di Mary Crow Dog “Donna Lakota”, Marco Tropea Editore, Milano 1997 (24 marzo 2009)
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