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“Lasciare” il lavoro… dietro le quinte della libertà?

“Lasciare” il lavoro… dietro le quinte della libertà?


Precariato - Le nuove generazioni, che ne siano consapevoli o no, sono a rischio. E sono molto più sole di quanto non credano

Giancarla Codrignani Lunedi, 14/06/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2010

Trovo su una rivista di nicchia, edita da un Società cooperativa di Forlì e nota a certa intellighenzia italiana - si chiama Una città - un'intervista a Marina Piazza a proposito di "un'indagine sul perché tante donne decidono di lasciare il lavoro entro il primo anno di vita del bambino". Forse è un segnale che ci può sfuggire, anche se appare rilevante.

Il servizio parte dal caso di una dirigente dell'impresa Red Bull, invitata a lasciare l'azienda dopo la maternità. Piazza spiega ri-raccontando il pregiudizio sulla lavoratrice che, quando diventa madre, "non rende più come prima". La responsabilità non è necessariamente delle ottime condizioni di trattamento della maternità ottenute dalle donne con le loro lotte; ma resta vero che, siccome nel primo anno di vita del bimbo viene mantenuta la copertura salariale per sei mesi, l'ultima statistica Istat rivela che il 13% delle neomamme si dimette spontaneamente.

Tuttavia "la scorciatoia non paga", perché "dopo" viene la dura esperienza della difficoltà di tornare sul mercato del lavoro, che ha due esiti: chi ci torna rischia il "mobbing strategico", chi resta fuori rischia la depressione. Anche perché la mamma "desidera senz'altro stare con il proprio bambino, ma non tutti i giorni 24 ore su 24". Qui si innesta una prima questione: le ragazze stesse forse non se ne accorgono, ma perfino quelle che ci dicono che è meglio trovare un marito ricco e fare la casalinga non pensano assolutamente di diventare come le loro madri. L'indipendenza contemporanea non passa solo, come un tempo, attraverso l'affermazione di sé nel lavoro retribuito, ma sta ormai nella testa: le abitudini sociali delle giovani e giovanissime sono quelle di conoscere un sacco di gente, di non rendere mai conto di dove si va, di stare con gli amici in mezzo alla movida... La casa, pur amata, non basta più alla generalità - non tutte, per carità - delle giovani: starci dentro senza entrarci e uscirne liberamente (come poi diventa praticamente necessario), è una frustrazione che può comportare addirittura la crisi degli equilibri familiari e di coppia. Infatti, dice Piazza, "nessuna di queste donne aveva pensato alla maternità come alternativa al lavoro". Tutte, probabilmente, credevano che, quando il governo giura di mettere al primo posto gli interessi delle famiglie e il ministero del Lavoro con quello delle Pari Opportunità scrive un documento (Italia 2030) per sostenere che ci vogliono più donne al lavoro, parlassero sul serio. Tutte, infatti, "vogliono lavorare bene ed essere delle buone madri".

Tanto per chiarire quanto contino innocue demagogie e buone intenzioni, si parte dall'esempio di una signora che, per collocare il piccolo al nido - che apre alla stessa ora dell'azienda a cui ritorna dopo aver partorito - arriva al lavoro con "otto minuti" di ritardo, con le conseguenti minacce di licenziamento, le angherie, mentre il sindacato sembra debole e la Consigliera di parità cerca di attivarsi. Dopo lunghi tempi di frustrazioni, alla fine vince, anche se con un part-time, mentre il suo bisogno era l'orario completo. Commenta Marina Piazza: "Sono vent'anni che parliamo di conciliazione, di orari flessibili, di part-time, eccetera, possibile che le aziende siano così impermeabili?". In altri paesi ci sono formule di flexi time all'ingresso e all'uscita che consentono di giocare l'orario con mezze ore di elasticità.

Sarebbe ora di applicare con maggior attenzione forme alternative o complementari: il job sharing, il part time, altre esperienze di flessibilità, anche scandite sull'arco della vita lavorativa. Anche perché non c'è più il modello fordista che, pare impossibile, domina ancora quasi solo da noi... Anche il sindacato non ne esce: "sulla legge 53 non ha mai proposto qualcosa di nuovo" perché non riesce a guardare il mercato - e tanto meno il welfare - "con gli occhi delle donne". È vero che lo stesso mondo femminile per anni ha ritenuto il part time un lavoro dequalificato, non totalmente dignitoso; ma oggi le donne hanno motivato le ragioni di un'opzione che può essere vantaggiosa per entrambi i generi in situazioni date. Invece negli ultimi cinque anni "il 91% di tutto l'aumento di occupazione femminile è dato dal part-time, ma non volontario, bensì imposto dalle aziende". Il welfare appare così ancora "tutto costruito su base lavoristica e il concetto della cura, che è un pilastro della società, non ha alcuna cittadinanza".

Personalmente sono convinta che non sarebbe difficile capire che le donne hanno un'esperienza tale della "flessibilità", se è vero che riescono a tenere insieme tutti i pezzi di vita, che dovrebbe renderle specialiste ricercate, da consultare per uscire dalle rigidità di processi ormai definitivamente compromessi. Invece, evidentemente, per il pensiero unico deve essere difficilissimo anche capire che cosa proponiamo.

Sembra inventata la sentenza della Corte Costituzionale del 1969 sulla disparità di trattamento fra uomini e donne nel trattamento pensionistico che dice: “l'attitudine al lavoro, in linea di massima, viene meno prima nella donna che nell'uomo, perché questa ha meno resistenza fisica, e d'altro canto è opportuno che la lavoratrice torni ad accudire esclusivamente la famiglia, dato che occorre limitare nel tempo il periodo di distrazione dalle cure domestiche”. (Prego sottolineare il termine "distrazione" che, riferito al lavoro in opposizione alla domesticità, la dice lunga sul giudizio degli autorevolissimi giudici sulle competenze familiari). Tuttavia, che nel 1969 sopravvivesse il pregiudizio sessista nella vetustà dei tribunali, passi; ma sorprende che ancor oggi il sindacato - che pure ha i suoi problemi di innovazione - non pensi di rinnovarsi partendo da ciò che considera marginale, vale a dire quegli interessi di genere che dovrebbero, da entrambe le parti, coniugare tempi di lavoro e tempi di vita, bisogno di lavoro a tempo pieno e desiderio di pagarsi ore ridotte, diritti di maternità e diritti di paternità. "Se una donna decide che le va bene il part time, che è disposta a rinunciare a una parte del reddito, perché non attenersi a questo dato?... Nella pubblica amministrazione si potrebbe già oggi fare molto: forse che una persone che fa 30 ore anziché 36 non riesce a coordinare un ufficio?". Anche i congedi parentali avrebbero bisogno di attenzione: in Italia vengono pagati meno che in altri paesi perché da noi non sono, anche nella denominazione, veri "congedi di paternità" a fianco dei "normali" congedi di maternità. I quali ultimi sono un diritto sempre più a rischio: "su un totale di forza lavoro femminile con età inferiore ai 40 anni, un terzo, se decide di avere un figlio, non accede alla maternità con tutti i diritti, perché i loro contratti non lo prevedono. E questa percentuale, per le donne minori di trent'anni, è pari quasi al 50%".

Comprendiamo davvero che siamo nel pieno di una fase di transizione, anche se non capiamo molto del modello che avanza. Tuttavia, intanto, sarebbe bene evitare di andare indietro: "le vecchie tutele non reggono più e non ce ne sono di nuove". Intanto cresce la preoccupazione sul grado di tenuta delle donne, soprattutto giovani, che, in quanto donne e in quanto lavoratrici, si ritrovano sole, anche se molte non se ne accorgono neppure. "Parliamo di giovani donne che hanno studiato, che sono brave nel loro lavoro, che quando restano incinte non pensano affatto di lasciare il loro posto. In un certo senso è come se questa nuova generazione proponesse un altro modello, quello di sanare la cesura tra la responsabilità e il desiderio di esserci e trasformare il mondo, e la voglia e la responsabilità di prendersene cura".

Se fosse vero, bisognerebbe cercare di snidare le precarie, le "partite iva" e tutte le marginali. Nella solitudine (che non percepiscono), sono loro, forse, quelle che possono farci (e farsi) venire idee su come sarà, sperando che ci sia, il futuro. Ma intanto loro, che se ne accorgano o no, sono a rischio.



P.S. Non c'entra nulla con il problema della compatibilità lavorativa delle giovani mamme, ma sullo stesso numero della rivista trovo un'altra intervista interessante, a Sara Manzoni, una femminista cattolica che è un vero piacere conoscere. È una che si è scandalizzata del rito matrimoniale preconciliare in cui la moglie promette sottomissione al marito e, quando si è sposata, ha modificato tutto quello che riteneva maschilista. Suo marito vorrebbe essere ordinato "diacono": occorre il consenso formale della moglie, che lei gli negherà perché l'estraneità della donna dallo stesso rituale rende la professione di fede "una cosa che ci separa". Sempre lei ha rimandato al mittente un contratto di assunzione particolarmente appetibile dicendo che non lo firmava se non glielo riscrivevano "al femminile". Glielo hanno riscritto...



(14 giugno 2010)

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