Mercoledi, 23/02/2022 - Un’entrata e un’uscita di scena senza farsi notare, quasi fosse per caso o di passaggio nel cortile sotto casa: poi il pubblico la vede, scende il silenzio in sala e lei, la protagonista del lungo monologo ‘Benji’ (in originale ‘Adult Child-Dead Child’) di Claire Dowie, inizia a raccontarsi, poco a poco, nel quadrato scenico scuro e spoglio, con una sola sedia di appoggio, catturando la confidenza e l’emozione degli spettatori, con i quali condivide, momento dopo momento, il mistero di una storia tanto umana quanto drammatica, quella di una grande sofferenza e di un disagio psichico in evoluzione, iniziato nell’infanzia e proseguito in età adulta.
Il successo e la piacevolezza dello spettacolo, tenutosi al Teatro Argot di Roma dal 17 al 20 febbraio, per la regia di Pierpaolo Sepe, derivano da un lato, senza dubbio, dal bel testo tragico-ironico della Dowie, scrittrice londinese fra le più anticonformiste del teatro contemporaneo e dalla sua capacità di saper trattare temi attuali e trasgressivi, dall’altro, inevitabilmente (trattandosi di un ‘one woman show’), dalla sensibilità dell’attrice/artista in scena e dalla sua capacità di guidare per mano il pubblico - anche avvicinandosi ad esso progressivamente, mediante lo spostamento fisico della sedia, oggetto che favorisce la connessione e scandisce il monologo in ‘paragrafi’ - attraverso la scoperta di un dramma esistenziale, intrapsichico e familiare, intimo e globale al tempo stesso, ma con momenti di grande esuberanza, ingenuità, tenerezza, sarcasmo.
La protagonista della pièce, senza nome né cognome, quasi non fosse degna di averne, è infatti interpretata magnificamente dall’attrice romana Chiara Tomarelli, artista poliedrica e di grande permeabilità emozionale, che si confronta con un approccio originale e coinvolgente, offrendo una prova che ne rivela il talento maturo e creativo, attraverso una recitazione naturale e studiata al tempo stesso, tra cambi di voce e mutamenti di gesti, che evidenziano età diverse e momenti concitati o di ripiegamento.
È affidato a lei, e a lei sola, l’onere di catturare lo spettatore nella vertigine della follia crescente della protagonista, disvelando il drammatico iter familiare e sociale che ha trasformato la bambina maltrattata e vessata dai genitori - perché non rispondente alle loro attese né agli standard “nella mia famiglia niente è fuori posto tranne me” - in un’adolescente difficile con un grave disagio psichico tendente alla schizofrenia, che si fa dirigere nelle scelte sbagliate dalla sua amica immaginaria chiamata Benji, col nome del cane di una vicina simpatica (la lady inglese che sembra essere l’unico essere umano ad accorgersi della sua esistenza da bambina), un cane buono ma all’occasione anche ‘una peste, una canaglia, una vera bestia’.
La scissione della mente della donna si accentua con la crescita: come già da bambina e adolescente, neppure da adulta accetta di essere autrice di azioni riprovevoli e continua ad attribuire all’amica immaginaria, come in un rifugio infantile mai abbandonato e salvifico, tutti gli atti inadeguati e incontrollati, anche esecrabili, per i quali prova profonda vergogna (‘non ero io a compiere quelle azioni terribili ma Benji’) e che rifiuta come proprie.
Maldestra, inadeguata e non attrattiva, privata di ogni autostima, non amata ed emarginata, incapace di inserirsi negli standard sociali previsti, dopo aver commesso piccoli reati bagatellari, la ragazza, poi donna - il cui sdoppiamento si accentua in ragione della gravità dei fatti commessi - giunge al tentato omicidio del padre e da qui all’ingresso in un Istituto psichiatrico, da cui verrà trasferita, dopo lunghe cure, in una comunità.
Nella condivisione con il gruppo troverà, finalmente, un po’ di pace e di calore umano, fino alle inevitabili dimissioni ed al tentativo di avviare una nuova vita autonoma. Salvata dal gruppo, la donna sembra destinata alla solitudine ma la speranza non chiude mai le porte.
Un lavoro difficile, di scavo ed approfondimento di labirinti doppiamente oscuri, quelli della mente tormentata della protagonista e quella delle famiglie e società, come territori in cui, oggi come ieri, si determina la ‘banalità del male’, non-luoghi dove tanti, troppi esseri umani, hanno una sorte di infelicità segnata, perché ignorati, maltrattati, incompresi o abbandonati.
Le emozioni dello spettacolo invitano anche alla riflessione sui comportamenti degli adulti in una società ipocrita e performante, spesso priva di compassione, dove: “non puoi dire di aver bisogno dell'amore come un bambino, non puoi dirlo perché sei un adulto”.
La traduzione del testo di Claire Dowie è di Anna Parnanzini e Maggie Rose, i costumi di scena di Barbara Bessi.
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