Redazione Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2006
Donne e Media: “ancelle” o signore
della comunicazione?
Seminario nazionale: Roma, 13 maggio 2006
Casa Internazionale delle Donne
Organizzato da:
Agenzia di stampa Delt@
Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini
Controparola
Cooperativa l’Altravista
“il paese delle donne”
“Leggendaria”
“noidonne”
Wacc - Global Media Monitoring Project Italia
Con la collaborazione della Federazione nazionale della stampa italiana Commissione Pari Opportunità.
Sintesi del seminario a cura de “il paese delle donne”
Dall’invito all’incontro
Varie ricerche effettuate e pubblicate di
recente hanno mostrato quanto l’immagine
e la presenza delle donne nei media sia ancora
fortemente segnata da stereotipi e quanto
anche la loro posizione nella piramide dei
media sia ben lontana da una reale parità.
Questo ha ripercussioni non solo sulla qualità
dei vari prodotti della comunicazione, ma
anche sulle strategie editoriali e sulla qualità
dell’organizzazione del lavoro.
Come promotrici di questo incontro
ci rivolgiamo sia a tutte le donne che lavorano
nei vari ambiti della comunicazione,
sia alle donne che fanno ricerca, insegnano
o studiano comunicazione.
Nel contempo vogliamo anche aprire
un dialogo e creare sinergie possibili con
le donne “di scienza”, impegnate nelle varie
professioni con una visione di genere,
perché l’informazione che facciamo venga
arricchita dalla loro competenza, così come
vogliamo ascoltare la voce delle donne
che sono semplici fruitrici dell’informazione.
Insomma, siamo convinte che non ci si può
più fermare all’osservazione della foto negativa
dell’immagine della donna che i media offrono
o lamentarsi per un’organizzazione del lavoro
insoddisfacente e che vede assenti le donne
nei luoghi decisionali, ma – a partire dalla
constatazione che le donne nei media sono
tante e possono contare di più – si tratta
di pensare strategie e sinergie possibili,
azioni concrete, iniziative comuni.
Crediamo sia importante creare o rafforzare
i legami tra la ricerca e il lavoro nei media
per uno scambio di esperienze e conoscenze.
Ci rivolgiamo alle studentesse e alle precarie
che si inseriscono nel giornalismo in condizioni
spesso mortificanti.
Come metodo del seminario proponiamo,
dopo una “fotografia” che emerge dalle ricerche
su donne e media, e in particolare da una
ricerca mondiale sulle donne nei media
organizzata dalla WACC (World Association
for Christian Communication) e effettuata
anche in Italia dall’Osservatorio di Pavia e
da professori e studenti di varie università italiane,
di realizzare una fotografia “in movimento”,
ragionare sulla situazione presente, ascoltare
voci ed esperienze per poi… ipotizzare metodi,
strategie, appuntamenti, iniziative perché
un’altra comunicazione è possibile.
In apertura del seminario
Costanza Fanelli
(presidente del Consorzio della Casa internazionale delle donne di Roma)
La Provincia di Roma è la cornice che ha consentito questa iniziativa che ha messo insieme il lavoro di tanti soggetti, anche quelli che, nella Casa, sono impegnati sul tema dell’informazione. Credo, anche, che sia importante sottolineare il fatto che la Casa internazionale riesce negli ultimi tempi a creare dei momenti di confronto per rilanciare temi dove c’è protagonismo delle donne. Le donne delle associazioni sono quelle che hanno contribuito alla costruzione di questa casa per dare loro uno spazio di libertà e la libertà si realizza prima di tutto attraverso un modo di parlare insieme. Io voglio rappresentare la casa come una grande piazza.
Nella mia vita politica come nel mio lavoro sono stata protagonista di un fatto informativo; sono stata per molto tempo presidente della cooperativa Libera Stampa, uno dei modi più significativi da parte delle donne di decidere di stare nell’informazione.
Penso che ognuna di noi abbia attraversato diverse fasi della riflessione sul rapporto tra media e donne. C’è stata una prima fase in cui semplicemente ragionavamo su come erano trattate male le donne nell’informazione. Una seconda fase molto importante è stata quella della discussione sul corpo, su come era trattato dall’informazione. C’è stata inoltre una grandissima produzione delle donne nell’informazione, anche molto differenziata. Ci sono state iniziative per essere più forti nell’informazione, c’è stata l’esperienza dell’informazione autogestita dalle donne: non solo “il paese delle donne” e “noidonne”. Oggi tutti questi approcci sentiamo che sono limitati: c’è bisogno di un approccio globale per costruire dei riferimenti.
Ho provato a sintetizzare alcuni interrogativi. Il primo, molto banale ma che penso come donna e come cittadina: cosa significa fare buona informazione anche per le donne, oggi, in un mondo globalizzato? Cosa significa fare bene il mestiere dell’operatrice dell’informazione e non solo della giornalista?
Non trascuriamo tutta la catena che produce l’informazione, dove ci sono tantissime donne e dove oggi le donne vivono una condizione di precarietà che non gli consente di avere una proiezione di forza in questo settore. Qui secondo me c’è un problema importante di cui anche le giornaliste che “sono arrivate” dovrebbero in qualche modo farsi carico. Non è solo un problema di precarietà del lavoro: in quelle condizioni non si fa buona informazione, tanto meno per le donne e da parte delle donne.
Il terzo interrogativo è sul tema del potere nei media e dei media. Come affrontare oggi questo problema in una maniera che non ci dia solo un senso di impotenza? Io credo che si debba ricominciare dalla cittadinanza attiva.
Un quarto punto è quello del fare informazione anche con strumenti che le donne gestiscono in autonomia.
Roberta Agostini
(presidente Commissione Cultura della Provincia di Roma)
Porto il saluto della Commissione delle Elette anche a nome della presidente Cecilia D’Elia. Noi abbiamo entusiasticamente aderito alla proposta di sostenere un convegno di questo genere non semplicemente per i temi che si discuteranno ma anche per il metodo con cui si è scelto di affrontare queste tematiche: credo che sia un metodo che ci consente la circolazione di informazioni in modo orizzontale.
Si è cittadini e cittadine se si partecipa ad uno spazio pubblico e si partecipa ad uno spazio pubblico se si hanno gli strumenti per farlo, in primo luogo se si è correttamente informati su quello che avviene intorno a noi. Quindi credo che come istituzioni abbiamo il dovere basilare di tutelare quello spazio pubblico dell’informazione.
Per questo credo che ci sia bisogno di un’alleanza di tutte le forze che sono interessate ad un’informazione diversa, ad un’informazione meno commerciale ad esempio per quanto riguarda la tv, che si apra ai temi sociali, ai temi dei diritti, ai temi della vita concreta.
Il secondo punto è che oggi i media sono le agenzie più importanti della formazione più che dell’informazione, creano i modelli culturali e spesso e volentieri quello che non esiste sui giornali non esiste nella realtà. Noi come donne impegnate in politica abbiamo cercato di costruire una campagna elettorale che si spendesse sui temi della partecipazione delle donne alla vita pubblica, alla presenza delle donne nelle istituzioni, abbiamo visto invece che le donne in tv non sono apparse: è chiaro che c’è un problema della politica, perché i leader sono tutti uomini, ma questo tema della politica entra in un cortocircuito quando si incontra con il mondo dell’informazione, che spesso non è interessato ad una realtà femminile che è varia, che è articolata non solo dal punto di vista della politica ma anche da quello della società.
La presenza nel mondo dell’informazione delle donne è aumentata: sono aumentate le giornaliste ed è aumentata la presenza delle donne in tutta la filiera dell’informazione. Resta da compiere un salto di qualità, è necessario avere più donne nei luoghi della decisione, ma io credo che sia anche necessario che venga assunta una dualità nel punto di vista di genere, come metro per fare informazione, facendo entrare a pieno titolo nel circuito dell’informazione e della comunicazione l’autorevolezza del punto di vista e del pensiero delle donne.
Donne e Media
Coordina Gianna Urizio (Rai 2, Associazione Donne in genere)
Gianna Urizio
La nostra giornata comincia con una fotografia, che è sempre importante ed utile. Si tratta della fotografia di come sono rappresentate, quanto sono presenti e come sono presenti le donne nei media. È il risultato italiano di una ricerca che si è svolta a livello mondiale, ha coinvolto 70 Paesi, donne e uomini di università, di gruppi democratici di media; è stata organizzata dalla Wacc (World Association for Christian Communication) che è un’organizzazione mondiale che opera con gruppi di base ovunque, garantendo luoghi di democrazia. Questa ricerca è stata svolta per la prima volta nel ’95 (Congresso di Pechino), la coordinatrice italiana è stata Gioia de Cristoforo Longo nel ’95, Claudia Padovani nel 2000-2005.
Come organizzatrici di questo seminario ci siamo chieste: perché fare un altro incontro su donne e media? Ce ne sono già tanti che sono anche eccellenti. La novità sta in tre cose.
Anzitutto il metodo: abbiamo pensato che volevamo cercare di dare all’incontro una prospettiva di genere, e analizzare i media con questa prospettiva.
Secondo: avere un incontro orizzontale; abbiamo voluto dei workshop in cui tutte siano “esperte” e portino il loro contributo in un mosaico che alla fine deve ricomporsi.
Terza: abbiamo cercato di mettere insieme le donne che fanno non solo informazione ma comunicazione perché ci rendiamo conto che l’immagine della donna non è fatta solo dalle parole dell’informazione, ma è un complesso dato da una comunicazione che mette dentro registe, camerawomen, foniche, attrici etc.
Noi parliamo di comunicazione come una realtà complessa. Molte volte le donne che fanno informazione e comunicazione sono complici dell’informazione nel non pensare le donne come esperte, nel non chiamare donne esperte, nel non creare reti di solidarietà e di trasmissione dei saperi con quelle che si affacciano all’informazione.
I temi: non è solamente un convegno che vuole riflettere sull’immagine della donna nell’informazione, ma anche analizzare com’è il processo della produzione dell’informazione. Quindi cominciare a dirci delle cose per innestare dei cambiamenti.
Infine gli obiettivi: non vorremmo che tutto finisse qui. Possiamo cominciare a pensarci in rete: la nostra debolezza viene dall’isolamento.
Claudia Padovani
(coordinatrice italiana del Global Media Monitoring Project)
Premetto che ho avuto l’opportunità di coordinare l’ultima edizione di questo Gmmp non in quanto studiosa di temi di genere ma in quanto studiosa di tematiche di comunicazione internazionale.
Mi occupo di politiche della comunicazione e in particolare di movimenti sociali che si stanno sviluppando su questi temi e sto portando avanti da diverso tempo anche analisi di rete, di come queste mobilitazioni si stanno sviluppando. Non a caso ho intitolato la mia presentazione “Non solo una ricerca”, perché questo progetto di monitoraggio si inserisce in un percorso più ampio di cui l’attività di monitoraggio è solo una parte. In questo senso può essere interessante utilizzare alcuni dei dati che sono emersi come fotografia di una realtà per fare una serie di riflessioni che in questa realtà vanno a guardare anche altri aspetti.
Per quello che sappiamo, questa rimane la ricerca più ampia che sia stata fatta a livello internazionale. Una cosa interessante è che la composizione delle squadre di lavoro varia moltissimo da paese a paese, si sono analizzate quindi moltissime notizie. Il 16 febbraio 2005 è stato scelto come giornata campione e in quella giornata in tutti questi paesi sono stati monitorati i mezzi di informazione: carta stampata, radio e tv. Alcune delle persone che fanno parte di un percorso più storico di riflessione femminista in materia di relazione tra donne ed informazione hanno avuto un ruolo importante: Margaret Gallagher è stata la consulente tecnica di questo lavoro.
Gli obiettivi della ricerca erano non solamente condurre un monitoraggio, non solamente costruire qualcosa che avesse una portata internazionale, ma attraverso un progetto di questo tipo, la condivisione di un esperienza molto concreta, arrivare a promuovere una cultura di genere anche tra coloro che quell’esperienza la stavano facendo. E posso dire che l’esperienza di aver coinvolto molti studenti e studentesse da questo punto di vista è stato esemplare.
L’altro aspetto importante è avere attraverso monitoraggi di questo tipo dei dati precisi sulla base dei quali richiamare le istituzioni dei media e non solo alle loro responsabilità. Quello che si sottolinea in questo rapporto conclusivo è che, nonostante alcuni passi avanti – alcune conquiste in questi dieci anni, da Pechino ad oggi, sono riscontrabili – però di fatto la situazione rimane tuttora molto problematica.
Le donne come soggetti dell’informazione contano ancora molto poco. Dominano le voci maschili nelle così dette hard news, difficilmente le donne emergono come voci esterne, come portavoce: tendenzialmente sono o protagoniste di eventi o rappresentano il senso comune.
Per quanto riguarda il ruolo delle donne, si è avuta un’evoluzione notevole nella presenza di donne soprattutto nella televisione, questo in moltissimi paesi.
Però resta il fatto che si pensa sia normale che parlino di questioni di tipo sociale.
Produrre una cultura che sia sensibile alle questioni di genere passa anche attraverso la raccolta di dati, il coinvolgimento di molti e di molte nell’elaborazione di questi dati, ma anche attraverso una restituzione di questi dati che ha cercato forse in questa edizione di essere più incisiva e più efficace.
Dal 16 febbraio 2006 fino all’8 marzo 2006 c’è stata una campagna dal titolo “Who makes the news” che si è estesa non solo nel Regno unito, dove aveva sede la Wacc, ma, attraverso una serie di iniziative di dibattiti, presentazioni pubbliche dei risultati nazionali, in moltissimi paesi e contesti cercando di rafforzare la rete tra queste realtà.
Noi abbiamo fatto un altro pezzetto di ricerca che partiva dal tipo di interesse che io e alcune delle persone che lavorano con me abbiamo. Pensando che tra gli obiettivi di questa esperienza ci fosse il fatto di utilizzare un’attività specifica per consolidare reti esistenti, siamo andati a vedere, nei diversi contesti regionali, in che modo i coordinatori nazionali hanno percepito che questo monitoraggio favorisse il consolidamento di reti. In Italia il monitoraggio 2005 ha consentito a realtà molto diverse tra loro, pur lavorando su tematiche simili, di lavorare insieme su questa stessa iniziativa. Quindi si è formata una rete che non esisteva e che per diversi aspetti sta proseguendo.
Concludo con queste due riflessioni. A fianco dei movimenti che hanno una storia più lunga, ad esempio quello delle donne, il movimento per la pace, quello ambientalista, c’è un emergere di mobilitazioni anche a livello transnazionale di gente che riconosce l’informazione come risorsa importante e vede in questa un luogo di lotta possibile. Sono movimenti in cui credo che anche una riflessione sulle donne si debba collocare.
L’altra considerazione è che c’è un nesso tra informazione, nuove tecnologie, diritti umani, diritti di comunicazione e sviluppo. Credo che sia il consolidarsi dell’attenzione su questi temi, sia l’attenzione delle donne non più solo per le questione di informazione e di media, ma anche per le sfide che si pongono con l’avvento delle nuove tecnologie, siano elementi importanti.
Monia Azzalini
(Osservatorio di Pavia)
Vorrei prima darvi alcune informazioni sulla metodologia con cui è stata fatta la ricerca per il Gmmp. Il monitoraggio ha riguardato stampa radio e televisione, media tradizionali, durante una giornata che è stata scelta per tutti i paesi partecipanti, 16 febbraio 2005. Occorre specificare che l’analisi è stata fatta solo per la parte informativa dei media. Questo per ragioni di uniformità nella rilevazione: se si analizza la comunicazione attraverso format che possono essere molto diversi da paese a paese la rilevazione può essere complicata.
La metodologia si chiama “analisi del contenuto”, è una metodologia tradizionale di analisi dei media che si avvale di una scheda strutturata come un questionario con domande precodificate cui gli analisti devono rispondere. Quest’anno era prevista anche un’analisi di tipo qualitativo basata su un format standard fornita dalla Wacc che secondo me è stata utile perché ha fornito alcuni esempi della modalità con cui le notizie vengono costruite a volte veicolando stereotipi e pregiudizi di genere, altre volte escludendo le donne o mettendo in campo tutti quegli aspetti che in qualche modo discriminano il genere donna. Ricordo i criteri con cui si è scelto di analizzare le testate giornalistiche: il primo riguarda il numero di testate, che è stato scelto dentro un range fornito dal Wacc.
Abbiamo cercato di trovare una equa rappresentanza tra le diverse testate italiane in termini di diffusione sul territorio e di scegliere i giornali neutri. “L’Avvenire” non è neutro ma è molto letto e rappresenta una cultura diffusa nel paese. “Il Sole 24 ore” è un giornale economico ed ha un target particolare. Avremmo voluto vedere tutti i giornali ma c’erano indicazioni precise riguardo al numero che venivano dalla Wacc. Per quanto riguarda la tv abbiamo scelto una rappresentazione sia dell’emittenza pubblica che di quella privata.
I risultati italiani mostrano che c’è un’ampia apertura nei confronti delle giornaliste donne, sono il 52% del campione (v. grafico 1).
Questo è un dato fortemente incrementato dal 63% di donne che conducono telegiornali. È un dato positivo, ma è un fenomeno non nuovo: una visibilità che è stata anche definita “effetto vetrina” perché alle sue spalle non vi è potere, il potere è dei direttori e di chi sta dietro le quinte e per lo più non è donna. Per quanto riguarda i soggetti, le persone che stanno nelle notizie in quanto protagonisti di eventi di cui si dà informazione o che vengono a vario titolo chiamate ad approfondire e commentare la notizia, le donne sono un risicato 14%, dato molto basso anche rispetto a quello internazionale che era il 21%. Quanto ai giornalisti, le donne prevalgono, 59%, come conduttrici di radio e televisione, mentre per quanto riguarda i corrispondenti le donne sono il 41%: la proporzione uomo-donna si rovescia. A rovesciarla è soprattutto il dato che riguarda la stampa: le donne giornaliste dei quotidiani, ovviamente quelle risultate dalla nostra analisi nella giornata campione, sono il 26%. Anche questo è un dato leggermente inferiore a quello internazionale che è del 29%. La chiusura della stampa italiana alle donne è abbastanza evidente: in base alla visibilità dei soggetti distinti per genere e per media possiamo vedere che la tv ha una più ampia apertura alle donne con un 16%, la radio dà un’apertura del 13% e la stampa solo del 10%.
I dati che ci dicono che sono poche le donne di cui si parla nell’informazione possono indicare tre cose: o che le notizie di cui si parla non includono le donne, o che il mondo in cui si muovono le donne ha poco accesso all’informazione oppure, ancora, che i giornalisti includono poco le donne perché magari queste non sono protagoniste degli eventi che si raccontano ma non vengono nemmeno chiamate come esperte a commentarle o approfondirle.
Nel 70% dei casi le donne entrano nell’informazione come protagoniste, quando cioè prendono parte ad eventi che superano la soglia della notiziabilità, sono invece poco incluse se non sono direttamente parte degli eventi. È evidente che se gli eventi cui prendono parte le donne non passano nell’informazione le donne sono escluse da questa.
Le “esperte” sono pochissime, il 2%, ma anche in ruoli che sono di solito molto femminili, come quello di chi narra esperienze personali o testimonia fatti a cui assistito, le donne sono poche.
Se andiamo ad analizzare quali sono i temi che includono le donne possiamo vedere che queste sono incluse soprattutto, 55%, in fatti di cronaca nera, di criminalità e violenza (vedi grafico n. 2).
Occorre precisare che il 16 febbraio è stato dominato, in termini di agenda da un evento che è anche un evento mediatico: il videomessaggio di Giuliana Sgrena che era prigioniera in Iraq. Questo evento ha influenzato enormemente i risultati ma non li ha distorti. È un evento che è entrato nell’informazione perché aveva tutte le caratteristiche per entrarci, è un caso esemplare di come e quando le donne facilmente entrano nell’informazione: se sono vittime di eventi cruenti, criminosi o violenti. È un fatto confermato anche dai dati che riguardano la vittimizzazione di donne e uomini nell’informazione (vedi grafico n. 3). Le donne rappresentate come vittima sono il 58% delle donne rappresentate, contro un 11% di uomini.
Spostiamo ora l’attenzione sulla domanda se il giornalismo femminile favorisca o meno l’inclusione delle donne e dell’universo in cui si muovono. Le donne parlano di donne nel 15% dei casi, gli uomini nel 12%, quindi un po’ meno, ma non molto. Risulta evidente che sia le giornaliste che i giornalisti sono prevalentemente interessati a un mondo di uomini.
Io penso che a livello nazionale sia l’agenda a fare da discrimine. Chi stabilisce la priorità delle notizie per lo più è uomo o comunque i criteri sono maschili: non interessa il genere di notizia che riguarda le donne.
Un ultimo dato riguarda gli stereotipi di genere. Il 5% delle notizie, che nel complesso erano circa 900, contenevano stereotipi di genere, contro un 1% di notizie che li sfidavano. Ci siamo anche divertite a trovare alcuni casi di stereotipi di genere che sono molto ricorrenti: facilitano molto la realtà ma perpetuano le discriminazioni in maniera secondo me più dannosa di altre cose più evidenti. La donna scosciata è più evidente, lo stereotipo spesso non viene colto come una violenza o come qualcosa di forte. Un caso di quelli che abbiamo analizzato era un servizio televisivo che parlava di elettrodomestici: quanto gli italiani usano gli elettrodomestici rispetto agli europei. Si diceva: “le donne italiane preferiscono lavare a mano i piatti”. Si è passati immediatamente dall’uso degli elettrodomestici a “le donne italiane preferiscono lavare i piatti.” Scontatissimo che il lavaggio dei piatti in casa spetta alla donna, che è pure deficiente perché preferisce lavarli a mano piuttosto che ricorrere alla lavastoviglie.
Loredana Cornero
(Ufficio relazioni internazionali Rai)
Un rapido excursus soprattutto sulle televisioni europee, perché le maggiori ricerche sono sulla televisione anche come mezzo più pervasivo: è ovvio che sono differenti da paese a paese, però i problemi che si riscontrano nelle televisioni europee sono molto simili.
Le ricerche sono tante: una molto importante è stata fatta dalla televisione del Nord Europa; un’altra, fatta dalla fondazione Brodolini, ha unito Lettonia e Italia. Nonostante le percentuali diverse, il problema è sempre quello: le donne sono poche a livello dirigenziale nelle televisioni, sottorappresentate nei luoghi in cui si decidono le notizie e le linee, poche quando vengono rappresentate. Se voi pensate che le donne politiche sono sottorappresentate in tutti i paesi si capisce che i problemi sono veramente identici.
Il Centro d’ascolto dell’informazione radio-televisiva ha fatto un’analisi di genere dell’informazione radio-televisiva e degli interventi politici in voce durante la campagna elettorale appena trascorsa. Senza andare nello specifico dei vari telegiornali (tre per Rai, tre per Mediaset più la 7):
– totale Mediaset: maschi 332, 97.22%, femmine 11, 2.78%:
la 7: maschi 73, 91.94%, femmine 5, 8.06.
“Screening gender” è una ricerca promossa dalle televisioni del Nord Europa che analizza chi parla in televisione, quante sono le donne, come vengono rappresentate, chi lavora nell’informazione.
Alla fine di questa ricerca troviamo una cosa secondo me fondamentale: due cassette che contengono servizi girati dai giornalisti o dalle giornaliste delle tv. E la possibilità di ripetere quel servizio che è stato girato senza tenere conto di una lettura di genere in modo differente (concretamente si rigira il servizio).
Un esempio: è una notizia che non ha nulla a che vedere con le così dette problematiche femminili, ma è uno di quei servizi in cui si perpetuano gli stereotipi. Si tratta di far passare una tangenziale in un paesino. La tangenziale deve passare esattamente dentro un comprensorio e le persone vogliono evitare che la tangenziale passi là. L’intervistatore uomo fa le domande unicamente ad un uomo mentre la moglie di questi lo guarda estasiata. Il servizio non passa, si rigira dicendo di fare domande alla donna. Il giornalista ritorna e fa le domande alla signora, la quale dopo avere risposto alla prima si rivolge al marito dicendo “vero caro?”. Ed il giornalista torna a fare le domande al marito. Si torna a girarlo per la terza volta, si elimina fisicamente il marito, la signora viene portata per strada senza il marito e la signora fa un’intervista chiarissima. Questo servizio va in onda. Questo è successo cinque anni fa.
Mi piacerebbe arrivare ad un “praticamente”, perché nonostante tanti tentativi non si è andati così avanti. Secondo me dovremmo riuscire ad avere un po’ di pragmatismo.
Da una parte dovremmo cominciare a pensare alla formazione, e non solo per chi fa propriamente “informazione”, ed in questi tentativi delle nostre colleghe ci sono degli strumenti che possono essere utili. E soprattutto bisogna riuscire a scardinare l’idea che se sono le donne a fare i servizi non cambia nulla. La formazione di genere però intesa non solo come quella che si svolge nelle scuole di giornalismo e nelle università, ma anche per chi questo mestiere lo esercita già.
Inoltre bisogna fare rete per cercare di fare concretamente qualcosa, anche piccolissima: un servizio che si cambia è già importante. L’ultima proposta che vorrei lanciare, che è già circolata, è la possibilità di un osservatorio, che però sia ascoltato, non come tanti organismi già esistenti.
“Ancelle” della comunicazione?
workshop a più voci coordinato da Marina Cosi (Federazione nazionale della Stampa, Commissione Pari opportunità)
Marina Cosi
Nel raccontarci frammenti di vita lavorativa e privata, e sappiamo le due cose indistricabili, nel domandarci innanzitutto cosa siano le donne della/nella comunicazione, ricordo che questo seminario ha il sostegno della Commissione permanente del Sindacato, unico e unitario, dei giornalisti italiani.
Come Cpo abbiamo promosso, nel tempo, vari convegni che, senza usare mai la dizione “tematiche femminili”, toccavano argomenti che ci riguardano: ad esempio “Donne di carta. Il punto: vent’anni fa e oggi”, sui periodici femminili italiani; “Info” sull’informazione sull’infibulazione; “Sotto il velo”, presenti donne iraniane e altre persone che si occupano del mondo arabo; “Notizia straordinaria” sulle problematiche della conciliazione tra qualità della vita e del lavoro da parte della giornaliste; “il costo della qualità” per esplorare quanto costa, a chi la fa, l’informazione di qualità e qual è il costo sociale della sua mancanza.
Abbiamo combattuto battaglie interne e strutturali alla categoria sull’accesso, sulle carriere, su quanto le donne si occupino di hard news piuttosto che di soft news e altre battaglie, di genere, su vari temi (quote, linguaggio, ecc.), insieme ad altre Commissioni. Abbiamo analizzato l’incidenza qualitativa delle donne approfondendo il discorso di come e quanto l’agenda determini discriminazione.
Riteniamo l’informazione uno “specchio”, possibilmente non deformato, della realtà e con qualche riflesso nella realtà: di qui l’inclusività e il discorso sugli stereotipi; abbiamo perciò esaminato il rapporto con le altre forme di comunicazione, tra le quali la pubblicità che conta una forte presenza di donne e che si dimostra, per alcuni versi, molto più avanzata nel tentativo di spezzare gli stereotipi. Altrettanta attenzione l’abbiamo data alla formazione.
Noi siamo oggi qui riunite grazie a Marina Pivetta che avendo invitato Claudia Padovani a parlare d’informazione nella sua bella trasmissione radiofonica [“Arianna: i nodi del filo”, Rai Gr Parlamento] si sentì dire dalle altre ospiti che anche loro avevano affrontato più volte l’argomento. Marina Pivetta suggerì quindi un appuntamento annuale, un “salone delle idee” in cui le donne s’incontrino, facciano rete, si scambino esperienze e saperi. L’idea piacque moltissimo e quello di oggi si propone come prima tappa di un percorso, in sé non esauriente perché non vuole esserlo.
Vogliamo invece “stendere” metodi e contenuti per fare rete e cominciare a superare lo spreco infinito di capacità, di consapevolezze, di ricerche, di doti che non conosciamo l’una dell’altra.
Un esempio di come la stampa tratta l’informazione “sulle donne” l’abbiamo dal “Corriere della Sera” di oggi che dedica un’intera pagina alla terribile vicenda di Jennifer pubblicando, all’indomani del duplice assassinio, foto choc del figlio mai nato e dando spazio a un dibattito, interno alla categoria, sull’opportunità di quella pubblicazione. Un dibattito giustissimo, che compare su altre testate, ma che sposta l’attenzione sul comunicatore anziché sulla comunicazione.
A margine, sette righe raccontano un’altra tremenda storia di cronaca: un uomo, condannato per uxoricidio, appena uscito dal carcere ammazza la seconda moglie.
Marcella Sansone
(RaiNews24)
Di questo seminario m’hanno colpito due cose: la mancanza delle “esperte” e la definizione di “soglia di notiziabilità” (bruttina ma rende l’idea).
Siamo davanti a una specie di corto circuito, perché anche nella gestione di un canale italiano l’informazione è pigra; la prima scelta è sempre sull’offerta che il mercato, per consuetudine, mette a disposizione e in questo mercato le “esperte” sono merce rara e devono cercare quello che non è nell’agenda del collega (donna o uomo). L’esperta entra nel cortocircuito della notiziabilità. Il mercato delle notizie è fortemente maschile ed è economicamente e politicamente forte, perciò condizionato, all’origine, da interessi internazionali o nazionali sui temi che dovrebbe illuminare. Questo influisce moltissimo sulle scelte di Redazioni vincolate a motivi economici e politici.
Le donne, in questo tipo d’offerta di notizie, sono soggetti meno visibili, come tanti altri e come tante altre situazioni, perché, nell’esaminare il circuito della notizia o di quello che si dice debba fare o essere notizia, occorre ricordare che non esiste una “notizia” in assoluto: la si può creare solo se ci sono una cultura e un contesto che permettano di renderla tale.
Ogni giorno scegliamo nel mercato le notizie e occorrerebbe un quid in più d’energia per uscire dall’offerta classica influenzata dall’economia e dalla politica e dalla nostra ignoranza; la soglia di notiziabilità, per quanto riguarda le donne, rimane perciò molto alta, essendo l’offerta poco visibile e la pressione culturale scarsa.
Creare un circuito d’offerta più forte, non dico di costruzione della notizia ma di messa a fuoco di argomenti e questioni poco visibili e poco accessibili, sarebbe quindi importantissimo e faciliterebbe l’emersione di “esperte” che oggi si fatica a rintracciare mentre di “esperti”, possibilmente sopra i settant’anni, se ne trovano moltissimi.
Marina Cosi
Per creare un bacino cui l’informazione pigra possa attingere notizie ed “esperte”, è fondamentale fare rete. Un esempio è il grosso lavoro che abbiamo fatto sulle parlamentari per spingerle a costruire una loro rete, offrendo in cambio la messa in circuito delle notizie da loro date e finora prive di rilievo presso i cronisti parlamentari e altri colleghi.
Daniela Brancati
(giornalista, scrittrice)
Osservo alcune cose: la prima è che apparentemente nulla è cambiato stando alla ricerca e ad altro materiale fornitoci oggi. Nell’ascoltare, mi tornavano alla mente altre analoghe ricerche e forse, volendo dare un titolo che potrebbe sembrare esageratamente sintetico, “Le donne appaiono, gli uomini appaiono e decidono”.
Le donne appaiono in televisione e anche molto, purtroppo non nei ruoli in cui ci piacerebbe vederle. Su questo vorrei fare una riflessione sull’organizzazione del lavoro, perché mi sembra esista una grande differenza tra televisione e carta stampata sulla quale Marina Cosi potrebbe parlarci molto meglio di me.
Oggi e sempre di più domani – e la difficoltà del rinnovo del contratto lo dice molto chiaramente – ci sono quelli/e che sono dentro l’organizzazione del lavoro e le categorie garantite, e lo sono nel modo già detto: uomini in posizioni decisionali e donne che faticosamente cercano di raggiungere la soglia decisionale.
C’è un risvolto molto importante, perché il nostro lavoro dà la rappresentazione della società, ovviamente contribuendo a cambiare la società, nel momento stesso in cui la rappresenta. Ci sono tutti quelli “fuori”.
Nel momento in cui si decide la notiziabilità di un fatto, non si manda quasi mai a realizzare il servizio chi è interno/a alla Redazione, protetto/a dal contratto di lavoro e che ha un margine di trattativa anche su come usare la notizia. Si manda il giovane, e molto spesso la giovane, pagato/a 15, 20 euro a pezzo, che non ha nessun potere di contrattare il modo di affrontare la notizia e che la confezionerà non perché vale ma perché deve farla esattamente come il caporedattore, quasi sempre uomo, gli/le dirà di farla.
Questo, per me, è uno dei principali problemi, perché nonostante la buona volontà di affrontare il lavoro con un certo tipo di coscienza, non si sfugge alla necessità e il problema è che molti giovani e molte giovani necessitano d’entrare nel mondo del lavoro passando attraverso questa strettoia.
Non si può chiedere loro di essere eroi, anzi dovrebbe essere una società che ha poco bisogno di eroi ed eroine.
Quando si parla di pigrizia dell’informazione, non sono tanto d’accordo. È un problema di organizzazione del lavoro e di necessità.
Il giornalismo si fa al computer, oggi, non più “andando fuori”, e il computer ti riversa una quantità di notizie ogni giorno tra le quali ti sembra solo di poter scegliere, non di dover approfondire, tanto meno di doverne cercare altre. È assolutamente necessaria una maggiore attenzione alle Agenzie di stampa.
Perdonatemi la battuta conclusiva: alle volte penso che potrebbe aiutarci solo l’anti-trust. Nello stesso momento in cui Bruno Vespa ha scritto un libro, anch’io ne ho scritto uno [Tutta una vita, ndr]. Bruno Vespa è comparso in ogni tipo di trasmissione, mentre quante di voi mi hanno visto in televisione con il mio libro? Una. E quell’unica, da addetta ai lavori, ha dato la notizia su Rainews24. Nessuna di voi, tranne una, ha saputo del mio libro mentre tutte sapevate che Bruno Vespa ne aveva scritto uno, che si trova ovunque. Questo ci fa capire la cosiddetta notiziabilità.
Marina Cosi
In merito alle percentuali di presenza di “precarie” e “garantite”, la Federazione nazionale della stampa, Commissione Pari opportunità ha fatto una ricerca sulle percentuali dei rapporti di lavoro per tipologia di azienda (quotidiani, periodici, agenzie di stampa, ecc.).
Le giornaliste nella carta stampata hanno avuto alcune cose in più anche perché, essendo due o tre durante la chiusura notturna del giornale, contro un centinaio e più di uomini, si sono fatte le spalle forti.
Stefanella Campana
(“La Stampa”)
Come ci si confronta, nell’informazione, con le donne “cattive”? lo sono veramente e in che modo l’informazione le racconta? Altro tema: l’idea di scrivere un libro sulle kamikaze e le torturatrici [Quando l’orrore è donna, Editori Riuniti], è nata insieme alla collega degli esteri de “La Stampa”. All’inizio ho tentennato, ritenendo che non sono tante le donne “cattive” e che in genere siamo quelle che subiscono le cattiverie altrui, poi ho affrontato la necessità di essere noi a parlare di questo problema apparso sulla scena mediatica. È stato un lavoro molto giornalistico, d’approfondimento, di raccolta anche del dibattito fatto in alcune sedi, tra le quali la Casa internazionale delle donne, ma rimasto abbastanza rinchiuso in un certo ambito.
Quando l’orrore è donna: un titolo forte, che ci crea problemi quando andiamo a presentarlo perché ci dicono che non compreranno mai un libro che abbina donne e orrore. Solo dopo un utile confronto la posizione cambia. Noi che facciamo informazione non possiamo non confrontarci con la realtà delle donne, piena di differenze.
Anch’io, nel dibattito odierno, ho avuto molte sollecitazioni. Credo, a partire dalla mia esperienza in un quotidiano come “La Stampa”, che le donne siano tante nell’informazione e vedo dei cambiamenti. Ci sono opinioniste importanti come Barbara Spinelli o Lietta Tornabuoni che esprimono concetti che modificano il modo di pensare. Anche le giovani danno spesso apporti importanti. Quest’ultime, rispetto alle giornaliste della mia generazione, hanno fatto carriera di caposervizio, di caporedattrice, molto più velocemente. Una mia collega, proveniente da “l’Unità”, nel giro di due mesi è diventata caporedattrice. Questa collega, bravissima e con una sensibilità di un certo tipo, quando le chiedevo perché non portasse una certa notizia alla riunione mattutina di Redazione, perché ne aveva il potere, rispondeva che tanto non sarebbe passata. Essere nei luoghi di potere non basta se non si ha il coraggio di battersi.
Per tornare a parlare d’opinioniste, mi sono spesso sforzata di trovare “l’esperta”, pur nei tempi ristrettissimi del quotidiano. È anche vero però che il nostro lavoro non basta. Quando scrissi, anni fa, un bel pezzo d’economia su una ricerca molto bella, con dati nuovi forniti da due economiste, docenti universitarie, sul tema delle donne separate o divorziate penalizzate da mariti che non passavano il pattuito, il direttore, che oggi dirige un giornale considerato molto di sinistra, me l’ha tolto dicendo: “cosa c’entra questo con l’economia?”, “chi sono queste due?”.
Dico questo non per scoraggiarci, ma per evitare facili entusiasmi che non corrispondono alla realtà. Nel nostro lavoro bisogna avere molto coraggio e voglia di arrabbiarsi. Ho visto nella mia redazione cambiare qualcosa tramite le giovani, come Francesca Paci che si sforza di portare dati sulle straniere. Sono dati importantissimi. Il cambiamento c’è ma non abbastanza come si vorrebbe.
Il lavoro, grosso, di sensibilizzazione e il fare rete, sono due cose fondamentali, che si potenziano tra loro e danno più forza alle donne. Ben venga la preparazione alla base, anche con scuole di giornalismo.
Marcella Pompili Pagliari
(Facoltà di Scienze della comunicazione, Università di Roma “La Sapienza”)
Sono responsabile di un esperimento che facciamo in Facoltà, il Laboratorio “Politiche e strategie di genere”, non soltanto quindi analisi sull’organizzazione delle donne nel lavoro e nella comunicazione, ma anche quella sul potere. Le parole e le culture delle PO che noi esplicitamente professiamo e militiamo, ci hanno avvicinate e ci hanno allontanate, per cui l’esperienza di oggi mi sembra significativa per ritrovare un rapporto. Desidero raccontare pubblicamente il mio re-incontro con Loredana, che mi ha contattato attraverso il Preside, per poi scoprire che eravamo nello stesso collettivo di donne a Trastevere che mi piace citare perché oggi ho ritrovato molte di loro.
L’invito a fare rete è stato spesso reiterato; anche oggi siamo qui con più identità: siamo Docenti, ma anche giornaliste, femministe e spesso stiamo negli stessi partiti. Per capire cosa c’è mancato in passato, credo che dovremmo ripercorrere anche la differenza analitica di come le Pari opportunità siano state intese e praticate dalle istituzioni politiche.
In questo scarto, da tutte evidenziato, nella correlazione tra soggetto donna e notizia, mi preoccupa non solo lo scarto tra uomo e donna, ma il fatto che siano gli uomini a non cogliere la realtà. Sono in disaccordo su quanto è stato detto sulla “discriminazione sottile”, perché la discriminazione culturale è vistosa.
Un esempio: le Pari opportunità sono ancora intese come sono nate nella prima fase, di tutela delle differenze, mentre ce ne è stata una seconda, di potenziamento con azioni positive, di discriminare per uguagliare e una terza con potenziamento delle capacità umane.
Ciò significa che non bisogna più, secondo me, trattare la donna nella comunicazione come “genere” ma per la sua capacità di fare, per le sue competenze e la sua professionalità. Siamo in una vistosa distorsione professionale non solo perché cambiano le professioni e i contratti di lavoro sono quelli che abbiamo ascoltato e non si ha potere, ma perché la comunicazione avviene attraverso pregiudizi sui quali ci sono anche degli effetti che ci provengono dall’Unione europea.
Alcune parole chiave come “conciliazione”, “empowerment” penso debbano essere rivisitate.
La “conciliazione” perché è la classica domanda che viene sempre fatta alle donne, con tutto il vantaggio che c’è nella legge 53/2000, il congedo dei padri non esiste e non è solo per differenze nelle posizioni apicali, per cui i padri, avendo maggiore reddito, non ricorrono alla legge, ma per diffidenza.
Mi sento connivente nell’aver accettato, anche nelle ricerche, questa parola chiave, perché parte dall’idea che la maternità e tutta l’esperienza privata sia un onere e la scelta del lavoro professionale produrrebbe una continua conflittualità soggettiva e di soluzione dei conflitti.
Chiudo sul come fare rete evitando gli errori che abbiamo fatto in passato, per tornare a una riscoperta della “qualità sociale” che già è stata scoperta prima ancora che dai giornalisti, dalle imprese.
Se analizziamo dove i processi d’accellerazione delle carriere sono più evidenti, dobbiamo guardare all’imprenditoria femminile, nelle dirigenze. “Il Sole 24 ore” aveva recentemente un bell’articolo su questo.
Come ci attrezziamo per fare il passaggio cruciale nella qualità sociale che significa, da una parte coesione sociale – e noi sappiamo bene che tra le donne non c’è sempre stata perché nei processi di carriera abbiamo usato gli stessi parametri d’individualizzazione sociale e ancora di più quest’individualizzazione, per le giovani generazioni, non è solo necessaria ma è anche una scelta.
Appartengo alle sessantenni; le quarantenni che fanno carriera spesso sono ostili alle generazioni precedenti e tutto il patrimonio di cultura che abbiamo portato con il femminismo viene sbaraccato, non solo per una certa leggerezza ma perché potrebbe essere un onere in questo processo d’individualizzazione.
Il secondo percorso è quello della sostenibilità sociale e della capacitazione, intendendo l’idea che da capitale umano, come siamo abituate a riconoscerci, facciamo passare il concetto di capitale sociale.
Funzioniamo e possiamo essere forti se questa rete, che è tutto ciò che abbiamo, la diffusione delle conoscenze nei distretti culturali, come può essere la città di Roma, funziona non solo nel collegamento con le donne politiche ma nella diffusione dei saperi. È una pratica che stiamo praticando nell’accademia, e funziona. Se questo capitale sociale però non lo trasferiamo in tutti i processi selettivi, anche della politica, nelle carriere e sul lavoro, credo che rimarremo deboli.
Marina Cosi
A proposito della ricerca de “Il Sole 24 ore”, abbiamo guardato al suo interno. È vero che c’è stato l’incremento dell’imprenditorialità, ma si tratta soprattutto di microimprenditorialità, di piccole aziende di poche persone, che è il popolo delle partite Iva; invece c’è una crescita vistosissima all’interno di questo che, se ben ricordo, tocca il 34,8% nei servizi alla persona, tradotto: asili, lavori in casa, ecc; sostanzialmente l’espansione nel sociale del lavoro di cura, mentre se si considera il numero delle donne nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese, c’è un crollo verticale.
Adele Cambria
(“l’Unità”)
Sono un esempio da non seguire. In questi giorni sto affrontando un pignoramento per 69.000 euro che dovrei pagare al defunto Rettore Ugo Cuzzocrea per aver, molto tempo fa, definito “verminaio” l’Università di Messina. L’editore del quotidiano calabrese, con cui ho collaborato dal 1998 al 2000, tenta di dileguarsi e ciò vi fa capire quanto un minimo di prudenza sia necessaria.
Sono entrata al “Il Giorno” di Gaetano Baldacci, nel marzo 1956, senza alcun meandro, senza passaggio di letti o altro, solo per lo sbalordimento di Baldacci di vedere una “signorina”, come mi chiamava, giunta da Reggio Calabria con la pretesa di fare la giornalista. Nel periodo di prova guadagnai 38.000 lire mensili, che erano diventate 180.000 quando mi dimisi per solidarietà con Baldacci.
Quando Marina Pivetta – cui va un pubblico elogio perché riesce a fare, nei gangli della Rai, una trasmissione in un’ottica di genere esemplare – mi ha telefonato per sapere se aderivo a questo seminario, ho subito detto di sì ma aggiungo, al di là del riferimento che potrebbe essere macabro, che si faccia una giornata della memoria delle superstiti che hanno cominciato, già ai tempi di Effe, a porre il discorso sull’informazione altra : Scrivere Contro è stato uno dei libri più importanti delle Edizioni delle donne; le battaglie per togliere dal precariato Chiara Bei d’Argentina e farle avere un contratto le abbiamo fatte tute noi, poi è venuta la grande Miriam Mafai dicendoci che in quanto femministe, sembravamo chi, con una topolino, volesse andare sull’autostrada. Io, essendo in topolino, mi sono ritirata.
Sono certamente elitaria, come mi rimprovera la mia amata capocronista attuale, Jolanda Bufalini (“l’Unità”), ma ricordo, in questa stessa sala, discussioni e riflessioni eccellenti, ad altissimo livello; facciamo dunque questa giornata, trasmettiamo questi temi e quello che per me potrebbe essere un deja vu per altre potrebbe diventare un momento significativo, un approdo.
Gioia Di Cristofaro Longo
(Facoltà di sociologia, Università di Roma “La Sapienza”)
Nell’essere qui, vivo l’archeologia e la futurologia di questo tema, perché da più di venticinque anni insegno con ricerche che ho fatto da quando la Commissione PO costituì il gruppo “donne e mass media” che ho coordinato per varie edizioni. Conosco quindi l’importanza delle indicazioni emerse, come quella della rete.
Nella seconda edizione della Commissione PO istituimmo un “Tavolo delle giornaliste” che, finché funzionò con il metodo del coordinamento spontaneo e della comunicazione delle esperienze, fu importantissimo: le giornaliste si scambiavano la gestione delle notizie, vincendo l’isolamento e concordando, preventivamente o sul momento, su come farle crescere, crescendo il Tavolo in autorevolezza.
Il problema d’oggi è sempre lo stesso: o decidiamo di stare sempre sul campo ben sapendo che ogni distrazione o idea di definitiva conquista porta alla sparizione, e di ciò bisogna prendere atto, oppure se siamo stanche, invece di teorizzare in altri termini e in altri concetti la stanchezza personale, diciamo: “sono stufa, passo il testimone” per poi magari riprenderselo.
Da venticinque anni mi vengono richieste, e ho sempre fatto resistenza, analisi su donne e mass media e pur essendo tante volte giunta allo sfinimento ho sempre ricominciato, perché “il dover essere” s’impone.
Il sistematico invito, nel tempo, a parlare sul tema odierno, in vari ambiti, mi conferma l’interesse che suscita il problema, che lo è per eccellenza. Occorre infatti vincere la battaglia della rappresentazione in una società dove conta solo il rappresentarsi e in questo l’Osservatorio è uno strumento adatto, ma bisogna ottenere, con poca fatica, una grande visibilità, che è l’esatto contrario di quanto abbiamo oggi.
I dati non sono mai cambiati nel tempo, anzi sono peggiorati considerando quelli oggi presentati che danno le “esperte” al 2% mentre nella mia ricerca, del 2003, erano al 7%: quel cambiamento positivo riguardava solo loro perché non erano “femminilizzate”, caricate di stereotipi diretti e indiretti “femminili”, pur rimanendo ostico l’uso non sessista del linguaggio.
A ben vedere, le ricerche danno sempre gli stessi dati. All’assenza delle donne nei mass media corrisponde la sovrarappresentazione in altri ambiti: il modello culturale che passa è dato sia dalla quantità che dalla carenza. Un esempio ne è il “cambio di stagione”, come dicevamo nello Sportello immagine donna delle scorse Commissioni PO: nei mass media, uomini e donne vivono stagioni diverse perché gli uomini sono sempre vestiti e noi quasi in costume da bagno. Ciò incide fortemente nella rappresentazione culturale per uomini e per donne.
Sto in questo periodo rifacendo una ricerca sulla pubblicità che, se è cambiata, lo è in modo preoccupante, perché, tra l’altro, sta cambiando la rappresentazione dell’uomo vicino alla donna nel senso di una parità che va esattamente al contrario. Nella pubblicità emergono nuovi discorsi, urgenti da fare: le differenze sessuali, l’induzione sistematica all’anoressia e altri. In tutti, non si va verso una migliore rappresentazione della donna ma si rimane alla complementarietà dell’immaginaria donna rappresentata.
Rispetto alle “esperte”, le poche volte che appaiono in televisione ottengono scarsa autorevolezza nei titoli. Sono sempre “dottoresse”, mai “professoresse”, mentre un uomo è sempre un autorevole “professore”. Mi è stato spiegato che essendoci “professoresse” nella scuola, per innalzare la donna la si chiama “dottoressa”, il che, in termini sostanziali universitari, significa negarle almeno due concorsi da “associato ordinario”.
Sono una delle poche cui viene lasciato “professoressa” ma vengono tolti gli altri titoli perché “troppo lunghi”, mentre agli uomini non viene tolto nulla. Stiamo quindi attente a non essere complici di una semplificazione e banalizzazione così evidente.
Sono molto d’accordo con Marcella Sansone e sulla proposta di Marina Pivetta del “salone”: occorre avere più attenzione al contesto culturale, ottenere migliori risultati con minori energie, accusare quando c’è da accusare perché stiamo arrivando a livelli terribili. Lavorerei sulla modalità della presenza dando per acquisito un bagaglio di conoscenze più che sufficiente. Punterei alla costanza, perché non è vero che le cose sono molto cambiate. Se nell’Università e nella Magistratura non c’è più forte discriminazione, manca la visibilità.
Noi siamo qui, in tante, e mi fa tanto piacere, ma sottolineo, da futurologa, che rischiamo di sperperare la grande consapevolezza dei giovani e delle giovani per vecchie polemiche, vecchie appartenenze, vecchi temi culturali, vecchie modalità.
Di chi è figlia questa gioventù? Delle loro madri e delle professoresse, ma non trovano il rinforzo per la rappresentazione. Ed è questo che dobbiamo dare.
Lea Melandri
(Libera università delle donne, Milano)
La maggiore novità della manifestazione milanese “usciamo dal silenzio” è stata che non era promossa dalle associazioni femministe, anche se il femminismo ne ha determinato in parte la riuscita, ma da una giornalista, Assunta Sarno, de “il manifesto”, che sappiamo tra le più disponibili anche se non abbiamo condiviso percorsi femministi. Assunta mi ha telefonato, mi ha detto la pesantezza del silenzio, mi ha proposto di vederci – io pensavo “in piccolo” – “alla grande” iniziando con un’e-mail ad amiche (Susanna Camuso, Marina Cosi, Cristina Pettioli, Maddalena Gasparini).
L’esito felice di quella combinazione – donne impegnate da trent’anni nel femminismo, giornaliste e sindacaliste di un certo peso – ha colto di sorpresa anche me. Centomila in piazza. È stato un momento importante, una svolta nella mia vita.
In merito al tema di oggi, riconosco che nella rete del femminismo c’è stata una ricchezza, un impegno e mobilitazione enorme, una produzione enorme di cultura e pensiero che non ha avuto un adeguato riconoscimento e circolazione, ma la difficoltà di trovare “esperte” è derivata anche, reciprocamente e spesso, da una chiusura delle associazioni femministe, dalle difficoltà a proporsi e a lottare per le proprie idee. Tante di noi hanno libri pubblicati; abbiamo fatto riviste di un certo peso che non sono mai state recensite e neppure segnalate. Ce ne sono tante di filosofe, scienziate, di “esperte” su questioni di genere che possono parlar
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