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“Abbiate occhi e cuore”

“Abbiate occhi e cuore”

Detenzione oggi - Queste parole ci arrivano dalle recluse, che non vogliono essere dimenticate e reclamano dignità in carcere

Marchesini Marcello Lunedi, 18/04/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2011

Trovare la casa è difficile, anche con il satellitare. Il luogo così appartato, conficcato nell’infinita pianura emiliana, vicino Modena, non può fare a meno di ricordarmi il prolungamento della solitudine e dell’isolamento che deve provare un detenuto. E poi è sera, e le stradine di campagna sono così poco illuminate, tutte così uguali e uniformi, che perdersi è più facile che ritrovarsi. Ma alla fine eccola. Loredana C. - nome di fantasia perché lei desidera, come le altre donne che parleranno con me, rimanere anonima - mi accoglie nel suo appartamento. Un tavolino, accanto un pc e una stampante sulla quale dorme, beato, un gran gatto, bianco come i capelli di questa signora di sessantasei anni dall’aria simpatica che, composta ed educata, inizia a raccontare la sua storia. Nata a Milano, vissuta per molti anni in Francia, accanita lettrice e laureata in legge, ha trascorso quattro anni della sua vita tra le carceri di Forlì, Bologna e infine Modena. “Mi appellavo alle regole per proteggermi - dice - perché se a volte possono apparire fastidiose, sono una garanzia, anche se a volte non piaceva il richiamo al loro rispetto, neppure a coloro che, all’interno del carcere, avrebbero dovuto esserne i garanti”. Tra le cose più difficili da sopportare della vita dentro, la promiscuità:”Non c’è alcuna intimità, nessun tipo di privacy, neppure minima. - continua - Condividere con altre sei persone che non conosci uno spazio così piccolo può creare forti tensioni”. Tanto che, una volta uscita, quello che più ha apprezzato è l’intimità ritrovata con se stessa: ”ho sentito forte la gioia della solitudine”. Oltre a questo, nel carcere il desiderio di libertà si concretizza come il bisogno di una serie di pratiche molto semplici: ”comprare quel che si vuole, alzarsi all’ora che si desidera, cucinare”. Anche se, inevitabilmente, questa esperienza ti trasforma: ”da quando sono uscita mi sono accorta di essere una persona diversa, meno disposta a negoziare, ad ascoltare, come se dovessi sfogare la rabbia per l’ingiustizia subita”. Ma quale ingiustizia? Di grandi e piccoli episodi di prevaricazione e violenza, ogni detenuta può raccontarne a decine, come storielle umoristiche per la gente “normale”: “Ho assistito ad episodi di prostituzione femminile, addirittura per un pacchetto di sigarette. C’è infatti - racconta - molta corruzione, anche alle spalle della direzione”. Se non cambiano le lenzuola che una volta al mese; se all’interno circola tantissima droga - il 30% dei detenuti è tossicodipendente; se il vitto è penoso e c’è chi specula sui prodotti che si possono acquistare in carcere; se c’è un alto rischio di contrarre l’epatite, allora “come può esserci vera rieducazione?” Inoltre, e questo Loredana ci tiene a sottolinearlo: ”Non sei mai trattata come una persona adulta. Vieni infantilizzata: ti ritrovi ad aver a che fare, costantemente, con la domandina, la spesina, la visitina”. Così, in questo asilo dell’orrore, si creano dei controsensi: ”chi appartiene a una grande organizzazione criminale ha, paradossalmente, la vita più facile di chi è dentro per reati minori o è alla prima esperienza. Per i primi, ad aspettarli fuori - e spesso ad assisterli dentro - c’è la “famiglia” criminale. I secondi si ritrovano invece, una volta usciti, completamente soli: molti, non abbastanza forti, hanno come alternativa o la disperazione o il ricadere nel circuito dell’illegalità, perché vengono isolati dal tessuto sociale al quale precedentemente appartenevano”. Quello che lei direbbe alle persone che di carcere non sanno nulla e che pensano che sia giusto punire i criminali è che: ”l’utente vero non è il detenuto, ma la società tutta: se il carcere non rieduca, allora sì diventa una spesa inutile. Non è interesse di nessuno che dai suoi cancelli escano persone peggiori di quando sono entrate. Quindi esigete che il carcere funzioni e sia umano, ed esigetelo per voi stessi: pretendete la customer satisfaction!”.

Parlare con Nora, moldava di ventinove anni, fa emergere un altro dei nodi della questione carcere, quello degli stranieri. Immigrata regolare, con una bambina di quattro anni che frequentava l’asilo della città in cui vivono tutt’ora, domicilio e lavoro stabili, un giorno viene improvvisamente arrestata. Il problema è che lei non sa nulla, neppure di aver subito un processo. Per il quale è stata condannata, in contumacia, a più di tre anni di carcere. “Se mi avessero cercata un po’ meglio mi avrebbero trovata, perché ho sempre vissuto nello stessa abitazione e risultavo nei registri comunali - racconta con una voce a metà tra rassegnazione e stupore - anche perché avrei almeno potuto cercare di difendermi, conoscere la mia situazione. Invece in questo modo sono stata catapultata all’improvviso in un posto - il carcere - che non auguro neppure al mio peggior nemico”. Ora per fortuna sono intervenuti i servizi sociali e, dopo cinque mesi, ha ottenuto la detenzione domiciliare: ”Posso uscire da casa tre ore al giorno, anche se ho perso il lavoro che avevo prima e per il permesso di soggiorno, del quale a breve stavo aspettando il rinnovo, è tutto fermo”. Se un detenuto su tre è straniero, non per questo la difesa ha diritto all’interprete d’ufficio - è previsto soltanto per le udienze dibattimentali - così capita spesso che gli avvocati si possano soltanto appellare alla clemenza della corte, non riuscendo a dialogare con il loro assistito e quindi a programmare alcuna strategia difensiva. Come se non bastasse, gli immigrati irregolari non hanno neppure diritto al gratuito patrocinio, anche se l’immigrazione irregolare è reato grazie all’articolo 19 del ddl sulla sicurezza del 2009: maggiori oneri a fronte di tutele minori.

Se Loredana affronta la sua esperienza con gli strumenti della riflessione e Nora dello stupore, dalla voce di Tina emerge invece una rabbia a stento trattenuta. Ha scontato “soltanto” un anno e otto mesi, ma le è sufficiente per dire che “il carcere fa schifo”. “Pagare per gli errori commessi è un conto, ma non ci si può approfittare di noi. Siamo persone, non cani in gabbia, e nemmeno a un animale si dà il pane andato a male”. Il carcere l’ha molto cambiata, e ora sente il bisogno di sfogarsi: ”Dentro ti insultano, anche se cerchi di rivolgerti alle autorità con il massimo rispetto. Non c’è dignità, vieni offesa ed esposta a mille piccole umiliazioni: non siamo mostri, anche perché molti sono dentro per aver rubato per mangiare, non per divertimento”. Grazie alle sue parole risuona poi un’altra delle dolenti note del carcere: ”Ti fregano con la terapia. C’è un uso pesantissimo degli psicofarmaci, non per aiutare i detenuti a superare il disagio, ma per sedarli in modo tale che non diano problemi. Io stessa in una giornata sono stata costretta ad ingerire 40 gocce di Valium, e sono praticamente svenuta sulla branda”. A chi è fuori vorrei urlare: ”abbiate occhi e cuore, non voltatevi dall’altra parte: siamo tutti esseri umani, e anche nel carcere c’è molta sofferenza”.

Ma qual è l’opinione di chi in carcere opera? Paola Cigarini, volontaria del Gruppo Carcere-Città di Modena commenta, con molta cupezza: ”Da qualche anno a questa parte lavorare in carcere per la riabilitazione dei detenuti è sempre più difficile. Mancano i fondi per le attività, mancano i soldi per il personale - che lamenta da tempo carenze di organico - mancano infrastrutture dignitose, e si fa sempre meno ricorso a pene alternative o sostitutive” quando le statistiche dimostrano che, mentre i detenuti che commettono reato durante la misura alternativa sono 4 su 1000, quelli che tornano a delinquere dopo aver scontato tutta la pena in carcere sono 690 su 1000. Anche voci interne all’amministrazione del carcere Sant’Anna di Modena confermano come da due anni a questa parte il clima si sia appesantito, come si siano fatti enormi passi indietro rispetto agli obiettivi di trasparenza verso l’esterno e di rieducazione dei detenuti. Anche Vito Zincani, Procuratore Capo della Repubblica di Modena, dopo una visita, asserisce come detto carcere sia: ”una sorta di discarica sociale, dove vengono relegate quelle problematiche che non trovano spazio nella società”.



Di cosa parliamo quando parliamo di carcere

Al 31 dicembre 2010, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, le carceri italiane ospitano 67.961 detenuti. Tra questi, 2.930 donne e 24.954 stranieri, rispettivamente il 4,31% e il 36,72% del totale. Questi i numeri. Crudi. E muti, se non si aggiungessero altri dati. Emerge innanzitutto - nel paese dove il processo penale ha una durata media di tre anni e mezzo - la percentuale altissima di imputati, ben 28.727, mentre il numero di chi sta scontando una pena definitiva è 37.126. L’altro dato, quello più citato e forse più allarmante, riguarda la capienza delle strutture: nei 208 istituti detentivi - la cui capienza regolare è di 45.022 unità - si ha un sovraffollamento di 22.939 individui. Le statistiche, se hanno il pregio della chiarezza, possono tuttavia apparire fredde. Se però si pensa che ognuno di questi numeri nasconde volti, storie, intere vite compresse in celle sovraffollate e ambienti spesso malsani, drammi umani di ogni tipo, malattie fisiche e psichiche, forse allora si inizierà a comprendere meglio di cosa parliamo quando parliamo di carcere.



FOTO

Le foto sono tratte da "Altre donne. Viaggio nella carcerazione femminile" (2003)

Testi di Jamina Trifoni, fotografie di Francesco Cocco e Marco Cattaneo

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