Giovedi, 25/07/2013 - Come era prevedibile alle dichiarazioni di Anna Laura Millacci, relative all’ipotesi di maltrattamenti, percosse, violenze e finanche procurato aborto ad opera del suo compagno, Massimo De Cataldo, è conseguita l’apertura di un fascicolo da parte della Procura della Repubblica di Roma per l’accertamento dei fatti denunciati via facebook e delle correlate responsabilità. Sorprende di questa vicenda l’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche per rendere pubblici eventi privati, quasi che un post su di un social network sortisca la duplice conseguenza di innescare una denuncia forte, però, di un consenso acquisito in rete. Ma c’è veramente bisogno di ricorrere a tali espedienti per raggiungere l’effetto desiderato, ossia far accelerare il riconoscimento giudiziario delle responsabilità nel caso in cui si confermino le ipotesi accusatorie nel processo?
Nell’immediatezza dei fatti abbiamo visto scorrere in tempo reale su facebook le immagine di parole gravi e pesanti sulla condotta dell’uomo e quelle ancora più forti di un’acqua resa rossa da un grumo di sangue, prova volutamente visiva di un’interruzione di gravidanza causata da abusi fisici sulla donna. Le reazioni a queste fotografie sono state subito conseguenti, a tal punto che la Rete è sembrata quasi l’aula di un tribunale in cui per la verità quasi tutti condannavano Massimo De Cataldo e pochi si astenevano dal trarre conclusioni immediate. Una sorta di processo collettivo che, probabilmente, avrà sortito l’effetto desiderato da Anna Laura Millacci, ma che certamente pone una legittima domanda sul reale motivo dell’utilizzo di queste modalità di denuncia.
Alle prime battute la donna l’ha specificato nella necessità di rendere credibile la sua trasposizione dei fatti in particolar modo con i propri genitori, che avrebbero, a suo dire, subito invece la versione del compagno. Ma, forse che, se avesse sporto formale denuncia allegandovi quelle fotografie, l’effetto sarebbe stato diverso? Ad una giornalista che la incalzava per conoscere esplicitamente il motivo per il quale non si fosse rivolta alle forze dell’ordine, Anna Laura Millacci ha replicato che temeva si innescasse un iter processuale di sicuro nocumento per la figlia di appena due anni “che ha bisogno di un padre e non di un fratellino piccolo e violento”. Ma, forse che con l’intervento della Procura della Repubblica di Roma non si avvereranno i suoi timori circa l’inizio di una contesa legale per l’affidamento della bambina tra i due ex componenti della coppia? E allora perché coinvolgere un gran numero di utenti del social network in questa vicenda?
Dalle accuse rivoltegli Massimo Di Cataldo si è difeso sostenendo che la strategia adottata dalla donna è consequenziale alla sua attività professionale di artista visiva, ma non possiamo realmente credere che questo sia stato il motivo dell’aver voluto rendere partecipi moltissime persone del suo dramma personale e familiare, chiamando addirittura a testimoniarne le caratteristiche la prima moglie del compagno. Quest’ultima di contro si è subitaneamente tirata fuori da tale situazione, ribadendo a chiari lettere di non poter suffragare alcunché. Ancora una volta la Rete è diventata l’aula di un tribunale, in cui una testimone dichiara agli inquirenti che non sa nulla dei fatti oggetto di incriminazione.
Inoltre c’è da dire che l’espediente di scrivere quel post di accusa di maltrattamenti su facebook ha trovato giustificazione da parte degli operatori dei centri antiviolenza, che, intervistati, hanno sottolineato, come di fronte alla circostanza che molte denunce non vengano prese in considerazione,il fine spiegherebbe il mezzo utilizzato. Altri, invece, hanno rimarcato come questo caso dimostri che le donne violate abbiano bisogno di altro tipo di aiuto ed assistenza sulla via che le porta a denunciare i propri aguzzini. Certo è che qualsiasi altro commento sulla vicenda, personalmente, non mi convince perché rimane in me sempre fortemente vivo il ricordo di quell’acqua rossa e non sono sicura che altre donne in situazioni di soprusi di vita similari possano ricorrere ad una denuncia formulata in Rete. I social network non danno quel tipo particolare di coraggio che serve sicuramente in questi casi, né sostituiscono una mano o una voce amica capace di sostenere chi tenti di acquisire la consapevolezza giusta per denunciare il proprio carnefice. Facebook o altro similare espediente rimangono solo ed esclusivamente un mezzo, più o meno speciale, per arrivare all’effetto desiderato, ossia uscire da un tunnel di violenze quotidiane. E, si sa, l’utilizzo di qualsiasi strumento non può mai prescindere dalla reale volontà di arrivare a vedere la luce intravista alla fine di quel tunnel, null’altro più.
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