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Animalista non è l’opposto di umanista

Animalista non è l’opposto di umanista

Parliamo di Bioetica - La comunità scientifica ha a disposizione ampie possibilità di studio con metodi alternativi e attendibili senza l’impiego di animali

Battaglia Luisella Venerdi, 28/02/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2014

Un anno fa centinaia di cuccioli beagle furono liberati da Green Hill, un’azienda che li allevava per venderli a laboratori di ricerca. Oggi quei cuccioli, terrorizzati e stressati, sono stati adottati e, nel passaggio dalle gabbie alle case, hanno intrapreso un difficile percorso di riabilitazione. È un episodio che val la pena di ricordare dal momento che è stata approvata una legge di delegazione europea che vieta nel nostro paese l’allevamento di cani, gatti e primati non umani destinati alla sperimentazione. La notizia, salutata con entusiasmo dai movimenti animalisti, è stata accolta con grida di dolore da gruppi di sperimentatori che hanno profetizzato tempi neri per la ricerca scientifica. Ma cosa prevede esattamente la legge? È così pesantemente restrittiva, come sostengono i ricercatori più affezionati alle cavie? Certo, vengono ridotti i margini a metodiche sperimentali non rispettose degli animali, introducendo, ad esempio l’obbligo di anestesia e di analgesia (che risultano non usate almeno nel 20% degli esperimenti su circa 900mila animali!). Dovremmo dolercene? Dovremmo continuare a trattare gli animali come se fossero semplici macchine, strumenti di ricerca biologica? Se la somiglianza uomo/animale è l’assunto scientifico su cui la sperimentazione si basa, occorrerebbe trarne, per coerenza, tutte le implicazioni, a cominciare da quelle etiche. Non è possibile, in altri termini, affermare la somiglianza con gli animali quando li utilizziamo come cavie per fondare i nostri diritti e, nel contempo, sostenerne la diversità per eludere i nostri doveri.

Ma, ciò che è più sorprendente, non si è rilevato che lo stesso impianto della legge è sostanzialmente riformista dal momento che, lungi dal vietare la sperimentazione animale, si limita a regolarla secondo il ben noto modello delle 3R, e cioè: Rimpiazzamento degli animali, ove possibile, con metodiche alternative; Riduzione del numero di animali alla quantità minima necessaria per ottenere dati scientificamente attendibili; Raffinamento delle procedure al fine di ridurre sofferenza e stress.

Tra giubilo e scandalo nessuno ha ricordato che finalmente si dà attuazione ad una legge trascurata che risale a ben 20 anni fa (n.413, 12 /10/1993) e che, riconoscendo l’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, impegna università e centri di ricerca allo sviluppo di metodi alternativi. La legge è stata ampiamente disattesa, dal momento che a tutt'oggi ben pochi studenti e ricercatori sono al corrente di tale possibilità ma, quel che è più grave, non è stato introdotto nessun insegnamento di tecniche alternative. Ci si potrebbe pertanto chiedere quale sarebbe oggi lo stato della ricerca se la legge si fosse compiutamente attuata e se giovani ricercatori avessero avuto la possibilità di intraprendere nuove strade. Molti passi avanti sono stati fatti in questi decenni grazie ai progressi compiuti nella conoscenza dei meccanismi cellulari e molecolari alla base di processi patologici; anche l’informatica ha aperto nuovi orizzonti all’elaborazione di dati, alla costruzione di modelli, alla verifica di ipotesi. La tecnologia associata a queste nuove conoscenze si è andata evolvendo molto rapidamente, spinta anche dalle esigenze del mercato. La comunità scientifica, dunque, ha oggi a disposizione possibilità estremamente ampie di studio che non prevedono l’impiego di animali, metodi alternativi in grado di dare informazioni attendibili grazie a tecniche di prova moderne e controllate dal punto di vista della qualità che potrebbero essere più rapide e meno costose dei metodi tradizionali basati sulla sperimentazione animale. Esiste fin dal 1991 un ‘Centro europeo per la validazione dei metodi alternativi’: perché continuare a battere vecchie strade eticamente discutibili e scientificamente attardate?

Nel serrato dibattito sulla sperimentazione animale e sulla legge che impedirebbe uso e allevamento di cani, gatti e primati e imporrebbe l’analgesia prima di ogni procedura, l’animalismo è stato accusato di bloccare la ricerca. Un’accusa certo singolare dal momento che il cosiddetto `animalismo" è movimento così complesso e variegato nelle sue ispirazioni etico-filosofiche e nelle sue opzioni politiche da rendere davvero ardua tale imputazione. Chi tuttavia voglia proprio usare l'accetta, presentando l'animalismo come una versione aggressiva della zoofilia, sospesa tra l'esaltazione, l'incultura e la violenza, dovrebbe almeno sottolineare che l'intento che lo muove è di bloccare non la ricerca ma solo quella che prevede l'impiego di animali - a meno di cadere nel dogmatismo di chi identifica la ricerca che pratica con l'unica possibile.

In una società non paternalistica, ogni cittadino dovrebbe poter decidere quale medicina intende sostenere e, quindi, quale ricerca è disposto a finanziare. Penso ad una politica della ricerca rispettosa delle scelte etiche e dei valori espressi da una parte dell'opinione pubblica e che tenga conto del carattere evolutivo dell'etica, e cioè di come i comportamenti e le opzioni possano mutare in relazione alle concezioni che gli uomini e le donne hanno di sé e della 'buona vita'. Due modelli di medicina - e di ricerca - aumenterebbero il ventaglio delle nostre opzioni e consentirebbero a coloro che ritengono che la sperimentazione animale sia una pratica moralmente discutibile la possibilità di scegliere, non per tutti ma per la parte che li riguarda, una ricerca che escluda l'impiego degli animali e che sia riconosciuta e legittimata pubblicamente.

Giungiamo, infine, al più abusato argomento dei dibattiti sulla sperimentazione: chi sceglierete, l'animale o l'uomo? Dichiaratevi: animalisti o umanisti? La domanda rinvia ad una situazione altamente drammatica, la cosiddetta ‘scialuppa di salvataggio', in cui la ricerca scientifica è presentata come una sorta di viaggio per mare, naufragio incluso da cui appunto la necessità della scialuppa e l'inevitabilità della scelta tragica: quale vita sacrificare? Si è molto scritto, in ambito bioetico sull'appropriatezza di un'argomentazione che, oltre a vincolare le nostre scelte e la nostra immaginazione morale a situazioni di emergenza assoluta costringendoci alla logica minimalistica dell'aut/aut, offre della ricerca un'immagine se non bizzarra, certo poco dignitosa, apparentandola ad una crociera rovinosa, oggi diremmo 'alla Schettino'...

È forse venuto il momento di evadere dalla retorica consueta dei dibattiti, dai più triti pregiudizi e stereotipi. A partire, ad esempio, dall'idea che agli 'animalisti' non importi niente dei malati e della sofferenza umana. Conosco malati di sclerosi multipla disposti a mettersi volontariamente a disposizione come soggetti di studio per contribuire all'avanzamento delle ricerche e, insieme, per evitare, i sacrifici di animali. La stessa proposta di donazione del cadavere a fini di studio e di ricerca - a cui il Comitato Nazionale per la Bioetica ha dedicato di recente un documento - è stata sottoscritta dai membri di alcune associazioni animaliste che hanno motivato la loro scelta per entrambe le ragioni. Io, tra questi. Forse animalisti e umanisti non sono così lontani. Quanto meno, non sempre e non necessariamente.





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